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notizia del 29/09/2005 messa in rete alle 15:29:06
Gela é bella
Un pomeriggio di un deserto giorno d’estate con la mia potente bicilindri ritorno a Gela, arrivo come sempre da nord, da sud arrivano solo i clandestini e il petrolio, e io sono un gelese doc con una carta d’identità emessa niente poco di meno che dal Comune di Roma. Prima di imboccare il rettilineo rallento un pò per godermi il profilo della città. Nel consueto alternarsi di tetti, cupole e campanili, ritrovo ancora solitari il grigio “grattacielo” del calvario a est e quell’altro rosa a ovest. Nulla è cambiato, mi dico, e le mie ansie da emigrante trovano conforto, come i dolori del fondoschiena stanco di macinare km in sella ad una 750 custom.
Ma pochi km prima della meta, dritto davanti a me vedo apparire i piloni di una sopraelevata e su di essa vedo scorrere un TIR, sul momento stranito mi viene il dubbio di aver sbagliato strada, scalo la marcia e passo sotto un faraonico svincolo che verso destra indica Gela Ovest e Agrigento, mentre la rampa a sinistra è introdotta da uno di quei cartelli verdi che annunciano l’inizio di una autostrada, sormontato dal benvenuto della società di gestione GESR. Benedetta Legge Obiettivo! Ma allora è proprio vero! Bisogna riconoscere che le promesse di quell’uomo non erano marinaie. Che diamine un contratto è un contratto!
Una lieve pressione sull’acceleratore e la moto riprende fiato bruciando in un baleno gli ultimi km, sto quasi per immettermi sul cavalcaferrovia quando da un lato e dall’altro della strada vedo ergersi altri manufatti, segni inequivocabili che qualcosa di importante è successo nella mia città: sulla destra in lontananza vedo il tecnologico carapace di uno stadio di calcio, sulla sinistra oltre una cortina di edifici residenziali e alberghieri intravedo un enorme edificio per uffici. Mi chiedo, sarà il nuovo tribunale?
Decelero, la visiera del casco non preme più sul naso, mi dirigo verso il lungomare, mi piace entrare in città da quel lato come i clandestini, attraverso in souplesse la prima rotonda ma alla seconda devo accostare, anzi mi fermo. Quello che vedo mi obbliga a girare la chiave per spegnere il motore e scendere dalla sella. Stupito alzo la visiera piena di moschitte e per capire meglio comincio a camminare sull’ampio marciapiede. Il lato sinistro della scena che si presenta ai miei occhi è interamente occupato da un enorme edificio che a vederlo di botto mi ricorda la fiancata di un transatlantico, con le fasce orizzontali di lamiera bianchissima e lunghi ballatoi che danno ombra a cortine di vetro temperato, oltre il prospetto intravedo una corte, una grande piazza interna circondata da una successione di ulteriori ballatoi, con tanto di ascensori idraulici e panoramici accanto a belle rampe di scale metalliche di sicurezza, anch’esse bianche. Insomma un abbagliante e potente edificio, prova evidente che il grande Richard Meyer o qualche suo epigono era passato da Gela. In asse con l’ingresso principale pure una scultura/fontana tipo “Alexander Calder”, poggiata su un piano leggermente inclinato, allude al simbolo della bilancia. Sicuro il nuovo tribunale che in effetti mi aspettavo di trovare costruito. Quello che non mi aspettavo di vedere era come avevano rivoluzionato l’intera zona adiacente al nuovo palazzo di giustizia. Al posto della strada a due corsie, in cui ricordavo che ogni martedì allestivano un’animata fiera settimanale, c’è un viale di alberi al centro di un giardinetto bordato da alti fasci di canne di bambù, largo non più di quaranta metri che probabilmente continua a insinuarsi lungo il tracciato della vecchia ferrovia, fino e forse oltre il vecchio campo sportivo. Accanto al giardino emerge da sottoterra una rampa a due corsie e sull’asfalto noto una freccia con la P del parcheggio sotterraneo, mentre all’imbocco del tunnel un cartello indica a destra “Via Venezia-Macchitella-Licata-Agrigento” e a sinistra “Centro”.
Ritorno indietro verso la moto, per la sorpresa non mi ero tolto neanche il casco, riaccendo e parto verso il lungomare, passo accanto al fiume e appena arrivo all’ultima rotonda, quella con la piramide di vetro, rimango di nuovo di sasso. Sulla destra riconosco l’area dell’abbandonato Ospizio marino solo grazie alla facciata rossa del suo principale edificio, per il resto è cambiato tutto. Il muro del parterre è stato rifatto con pietra bianca simile a quella dei tanti interventi di epoca “aldisiana”, sul lungomare il marciapiede interno adesso è largo il triplo è il giardinetto di acacie spontanee prima chiuso da un muro di blocchi di tufo, è adesso aperto, hanno trovato posto pure per un paio di sedili in pietra.
I due marciapiedi del lungomare sono stati ripavimentati come quelli delle città brasiliane con mosaici a grandi tessere bianche e nere che disegnano onde alla maniera di Oscar Niemeyer. Burle Marx pareva invece si fosse dedicato a sistemare il piccolo giardinetto “tropicale” alla sinistra dell’ospizio, al posto di quell’assurda stradina in salita a due corsie che finiva contro un muro, il giardinetto è pieno di scivoli e altalene per i bimbi.
Risalgo verso la piazza semi ovale per vedere meglio il parterre, si vede subito che hanno solo steso un pratino verde con al centro il pennone su cui adesso sventola una bandiera giallorossa. Semplice ma estremamente elegante, sia il parterre che la bandiera sul pennone.
Gli edifici dietro e accanto a quello principale con la facciata rossa, sono solo dei padiglioni bianchi alti non più di 5 metri nei quali è evidente che hanno allestito una mostra, sul grande cartello sistemato al centro dell’emiciclo della piazza è scritto “oltre Pollock e l’astrattismo” e una enorme foto di una signora grassa vestita di nero che spalma con le mani la salsa su una tavola di legno”. Sotto a caratteri minori: “action painting in salsa nostrana”. Però mi dico e dove siamo a New York!
Insomma la Gela che avevo davanti agli occhi era un'altra ma nessuno ancora ne parlava. Perché i giornali non si occupavano di questo incredibile laboratorio di uomini, donne, artisti e politici che prima si sbizzarrivano dividendosi tra loro, inseguendo visioni aggressive, divergenti, accecanti, paralizzanti, fuorvianti e adesso avevano ritrovato un’incredibile capacità di decidere, operare e costruire?
Gela era uno dei luoghi di rinascita della Sicilia e si era lasciata alle spalle l’incubo texano e i suoi mefitici veleni. I pianti per la perduta arcadia contadina erano oramai sommersi dalla gioia dei suoi bambini che giocavano felici nei giardinetti.
Erano stati spazzati via i maleodoranti incubi delle mafie da quattro soldi, la città adesso profumava di pane buono, muschio e gelsomino. Una città libera, aperta, salubre, democratica, colta e vivace. Questo era e nessuno ancora ne parlava.
Era sempre una qualunque città di costa, un po’ più curata e ordinata di prima, vissuta da gente solare che vive accanto a gente ombrosa, con le strade ancora piene di disarmonie e bizzarrie; una città che nei giorni di festa si addobba con le luminarie e in quelle di mercato con le bancarelle e le moto api.
Con la sua tranquilla umanità, i suoi marciapiedi sconnessi occupati dai suoi traffici quotidiani, con la sua storia, le sue campagne, le sue quattro ciminiere.
Con amorevole partecipazione in molti avevano cercato di comprendere bene quello che Gela era veramente, senza pensare di trasformarla in altro. Era solo un ritorno a quello che era prima degli anni bui, con uno slancio di moderna efficienza.
Una città bianca e solare più bella della polverosa Tangeri o della sonnacchiosa Ostuni. Vista dal mare sembrava un miraggio, con le palme ma senza i cammelli e i tuareg.
Quel putiferio di case abusive tutte intonacate di bianco e con le finestre blu e verdi sembravano un'altra cosa.
Insomma per me era una città di accecante bellezza, sotto un incredibile cielo blu, con i signori che si salutano togliendosi il cappello e baciando le mani alle signore, i giovani che vanno in giro sulle lambrette e tante ragazze con belle gambe al vento che se ne fregano dei bigotti maldicenti.
Questo era fin quando non sentì mia figlia che mi tirava un braccio: Papà sono quasi le otto e devi alzarti per andare a lavorare!
Autore : Giuseppe Clementino
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