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Corriere di Gela | La Gela di D’Arrigo, due gocce nel mare di Horcynus Orca
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notizia del 29/04/2004 messa in rete alle 09:38:52
La Gela di D’Arrigo, due gocce nel mare di Horcynus Orca

Dedico questo scritto alla memoria di Nunzio Sciandrello, che fu mio Preside per cinque anni quando ero studente del Liceo Scientifico e che negli anni successivi, dopo essere entrati in contatto tramite lo scrittore Rosario Di Natale, nostro comune amico, mi onorò di una stima intellettuale così grande da risultare per me imbarazzante. Per lui, dopo l’uscita nel 2000 di un mio volume su Popper e Wittgenstein (edito da Gaetano Dainotto, anch’egli prematuramente scomparso), ero “il filosofo” nelle nostre discussioni sui libri, e spesso, per trovare sostegno alle sue perplessità sul reale valore di certe pretenziosissime pubblicazioni pseudo-filosofiche, da letterato che riconosceva la propria ‘dotta ignoranza’ su certe questioni filosofiche, chiedeva con infinita modestia il mio parere, nonostante avessi meno della metà dei suoi anni. E non dimenticherò mai la luce che si accendeva nei suoi occhi di saggio quando ascoltava le argomentazioni tecniche che avanzavo per sostenere un giudizio identico al suo. Nella nostra ultima conversazione, poche settimane prima della sua morte, ebbi modo di parlargli dei risultati dei miei studi su Horcynus Orca, verso i quali, a riprova della sua inesauribile curiosità culturale, si dimostrò attento e interessato al punto da rimpiangere di non avere più in corpo le energie per affrontare un’opera così elefantiaca e impegnativa.


E’ abbastanza noto che Stefano D’Arrigo (Alì, Messina, 1919- Roma, 1992) sottopose il pur È ponderoso romanzo I fatti della fera (due estratti del quale erano apparsi nel 1960 sul terzo numero del “Menabò” di Elio Vittorini e Italo Calvino col titolo I giorni della fera, creando un’enorme attesa per il capolavoro in gestazione), già in bozze nel 1961 e pronto per essere pubblicato da Mondadori, a un interminabile lavoro di revisione, rielaborazione e integrazione culminante nell’uscita, nel 1975, di un’opera con un titolo diverso che, sebbene pressoché identica alla precedente nella fabula e in gran parte dell’intreccio, presentava una dimensione quasi doppia (1257 pagine, pari a circa i cinque terzi della bozza originaria), un’accuratezza e un’originalità stupefacenti nel tessuto linguistico-narrativo e un valore letterario infinitamente più alto: Horcynus Orca.
In questi ultimi mesi si sta assistendo a un ritorno di interesse per quest’opera di una vita di D’Arrigo, grazie soprattutto a una nuova edizione Rizzoli del grande romanzo, da anni introvabile (l’ultima ristampa Mondadori risale al 1995), uscita nell’ottobre 2003 (1087 pagine), seguita nel febbraio 2004 da un’edizione economica de I fatti della fera, pubblicato per la prima volta da Rizzoli nel 2000 (660 pagine).
Per stimolare nei lettori gelesi la curiosità di leggere Horcynus Orca, che l’esigua schiera di studiosi e ammiratori (esigua perché il romanzo, oltre a intimorire per la sua mole, è oggettivamente “difficile”, soprattutto per i lettori non siciliani, i quali non possono entrare nel cuore delle miracolose invenzioni linguistiche del testo, spesso ottenute con l’innesto di molte radici dialettali sulla morfologia dell’italiano) annovera tra i capolavori assoluti della narrativa del Novecento, azzarderò uno sguardo d’insieme sul romanzo partendo dalle due ricorrenze in esso del nome della nostra città.
Le ragioni che mi spingono a questo tentativo che può apparire (e per taluni versi è) bizzarro, però, ci sono, e sono sostanzialmente due: 1) come già detto, il mio intento è qui quello di invitare i miei concittadini che amano la grande letteratura ad avvicinarsi a un’opera fondamentale ancora troppo ignorata (addirittura, ahimè, tra gli stessi docenti siciliani di materie letterarie), scritta da un siciliano e ambientata in Sicilia, in particolare nello Stretto di Messina, tra “Scilla” e “Cariddi”; 2) la costruzione del romanzo, la cura maniacale di ogni dettaglio linguistico-espressivo e la compattezza dei rimandi interni fanno sì che il suo tessuto narrativo presenti una forma ricorsiva che ricorda molto i frattali, nel senso che praticamente ogni livello micro-strutturale riproduce in piccolo la macro-struttura generale dell’opera, per cui isolare e analizzare due gocce nel mare di testo di questo testo di mare (che non ha al suo interno alcuna divisione in capitoli proprio per simulare la compattezza, ondeggiante in flussi e riflussi di correnti primarie e secondarie, “spurghi”, “rifiuti” e “bastardelli”, del mare in rema dello Stretto) può riservare le stesse sorprese conoscitive, per quanto parziali, che l’analisi chimica di un campione d’acqua marina riserva di solito a uno studioso degli Oceani.
In tal senso, spero che la mia operazione – una tra le tante possibili, dato che il testo è pieno di luoghi minori analoghi da cui si potrebbe guardare il tutto – riesca a far assaporare l’intima anima dell’opera con lo stesso meccanismo di risonanza evocativa attraverso il quale un uomo, standosene tranquillamente e pensosamente in barca, può assaporare e sentire l’essenza del mare leccandosi le dita bagnate in esso.

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Ma qual è, per cominciare, la nuda fabula di questo romanzo totale, su cui hanno messo le mani non tanto, come si diceva una volta, “e cielo e terra”, ma terra e mare, ovvero solo il mare e l’abisso di mistero che esso cela in sé in quanto origine e fine di tutto ciò che è vitale, e quindi luogo in cui si celebra l’eterno ciclo della vita e della morte, come già sapeva bene Talete, il primo filosofo? Horcynus Orca, ridotto ai “fatti” essenziali, è in fondo una storia semplice che si svolge nell’arco di pochissimi giorni, dal primo all’otto ottobre 1943 (nell’intreccio del romanzo, però, in accordo con il tipico attacco epico in medias res, la prima data menzionata nell’incipit, in cui si annuncia l’arrivo del protagonista sulla sponda calabrese dello Stretto, è “il quattro di ottobre del millenovecentoquarantatre”). Sbandato dopo l’8 settembre, “il marinaio, nocchiero semplice della fu regia Marina ’Ndrja Cambrìa”, in un nóstos chiaramente modellato su quello di Ulisse, parte da Napoli ai primi di ottobre e raggiunge il paese natale, Cariddi, un immaginario borgo di pescatori presso l’attuale Torre Faro. Qui trova il suo mondo distrutto dalla Storia e quasi irriconoscibile rispetto a come lo aveva lasciato due anni prima andando in guerra. I “pellisquadre”, cioè i pescatori di Cariddi, sono ridotti alla fame e alla miseria (anche spirituale) dai bombardamenti, e sul loro mare imperversano le “fere”, cioè i delfini, loro eterni, crudeli e sardonici nemici in quanto per puro gioco fanno strage di pescespada, la primaria fonte di guadagno per i cariddoti. Non solo. Dopo l’incontro ‘omerico’ col padre Caitanello, che si è chiuso in casa da giorni per risentimento nei confronti della comunità (essa si era mostrata indifferente alla sua “grande sblasata” di uscire in barca da solo per sfidare i cetacei) ed è ormai quasi inebetito e ridotto a evocare lo spirito della moglie morta da molti anni, ’Ndrja apprende la “grossa, grossissima” novità: sul mare dello Stretto è arrivata da quattro giorni, a simboleggiare definitivamente la fine del suo mondo (che è il mondo), un’immensa e morente “orca orcinusa”, che emana un fetore insopportabile di carogna per via di un antichissimo e purulento squarcio nel fianco sinistro. Contattato tramite un equivoco Maltese dagli angloamericani di stanza a Messina per una regata da disputarsi tra messinesi e alleati, ’Ndrja vorrebbe comprare, con le mille lire della ricompensa promessagli per la prestazione, una barca per i pellisquadre, i quali non sono più in grado di pescare da mesi perché le loro imbarcazioni sono state requisite e distrutte dai nazifascisti in fuga dall’isola dopo lo sbarco alleato in Sicilia. Intanto riesce ad ottenere dagli inglesi l’arenamento dell’orca (morta dopo essere stata scodata dalle fere “roncisvallose”), sì da dare ai cariddoti ridotti all’inerzia un “daffare di mano” e la possibilità di ricostruire una sia pur barbara economia smerciando le carni del disgustoso animale. Lasciata in lacrime ancora una volta la sua Penelope, cioè la giovane “zita” Marosa, e recatosi a Messina per la regata, durante il primo allenamento ’Ndrja è però colpito a morte da una pallottola in fronte, sparata dalla sentinella di una portaerei perché la lancia si era avvicinata troppo alla prora e, complice il primo imbrunire, forse era stata scambiata per un’imbarcazione nemica. E così l’interminabile romanzo si chiude con l’immagine della “lancia” che i compagni di ’Ndrja, continuando la corsa sul mare con a bordo il loro capo-voga morto, spingono rabbiosamente e dolorosamente verso Cariddi, navigando al buio “come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro, più dentro dove il mare è mare”.

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Ebbene, come entra in gioco Gela in questo vero e proprio Trionfo della Morte che si svolge nelle acque dello “scill’e cariddi” (così D’Arrigo chiama lo Stretto)? Vi entra, a mio parere, seppure occasionalissimamente, come luogo topografico che si configura come autentico luogo dello spirito, perché tutte e due le volte in cui Gela è menzionata siamo in un contesto in cui il Male, quello del corpo e quello della natura, trova un punto di singolarità in cui esso esprime al massimo la sua potenza dilagante nel mondo. (Noto di passaggio che le due occorrenze della parola “Gela” sono già presenti nei luoghi paralleli de I fatti della fera, p. 452 e p. 561, e ciò non è irrilevante, perché nei quasi quindici anni di rielaborazione delle bozze D’Arrigo cambiò molte cose anche sul piano delle indicazioni topografiche). Nel primo caso, ci troviamo in un microepisodio che, insieme ad altri due, rievoca l’iniziazione sessuale di ’Ndrja durante l’adolescenza, e tutti e tre costituiscono delle digressioni minori rispetto a una digressione più ampia, che ha la funzione di chiarire un sogno erotico fatto dal protagonista sulla riva subito dopo l’estenuante racconto del padre seguito al loro primo incontro (questo vertiginoso incassamento di digressioni sul passato costituisce la sostanza del tessuto narrativo del romanzo). L’episodio racconta di quando ’Ndrja e i suoi amici incontrarono sulla riva di Cariddi una “trapanese” lercia, invaiolata e assetata di sesso che si era arenata col suo “caicco”, nella cui stiva teneva nascosto, perché appestato e morente, il “beduino” che l’aveva rapita e deflorata. Nel racconto da Mille e una notte (una tra le piccole perle narrative del romanzo) in cui rievoca le loro peripezie nel Canale di Sicilia dopo che a Biserta gli scaricatori di porto smascherarono la malattia contagiosa del beduino, il quale da parte sua non voleva cedere al male che lo attanagliava e perciò si rifiutava di mettersi a letto, la trapanese a un certo punto dice: “Però, verso Gela lui finì di dire no, no e si sprofondò lassòtto: dopo di che, a Santa Croce Camarina mi pigliai a bordo quel mozzo miserabile, e lo tenni all’oscuro delle pustole del beduino” (p. 601 dell’ediz. Rizzoli 2003).

Il senso letterale di questo passo, preso isolatamente, è che “verso Gela” la malattia dell’appestato si aggrava e costui è costretto a mettersi a letto nella stiva. Ma perché, ci si potrebbe chiedere, proprio “verso Gela”? Che cosa c’è da quelle parti? Il lettore, per il momento, non ha alcun motivo di cercare una risposta a queste domande, tanto più se non è di Gela. E se non è di Gela, difficilmente si ricorderà di questo passo quando, centocinquantasette pagine dopo, si imbatterà per la seconda e ultima volta in questo toponimo. Ma il lettore gelese, se non è distratto, non può evitare a questo punto di tornare indietro, ritrovare l’occorrenza a pagina 601 e mettere a confronto i due passi: si accorgerà allora che il secondo getta una luce inquietante sul primo, e viceversa, e che quindi i due passi si illuminano a vicenda di una luce sinistra e rivelatrice di un senso più profondo sotto quello letterale.
Nel secondo caso, d’altra parte, ci troviamo non già nella digressione di una digressione rispetto a un episodio sostanzialmente secondario (il sogno sulla riva; da cui il ricordo delle strane teorie del vecchio Mimì Nastasi sulle Sirene omeriche, progenitrici a suo dire sia delle “fere” sia delle “femminote”, le erotomani contrabbandiere di sale di Bagnara, “il paese delle Femmine”; da cui infine il ricordo delle prime esperienze sessuali con feroci donne-sirene, tra cui appunto la trapanese), ma nella prima pagina dell’episodio centrale del romanzo, l’epico e roncisvalloso scontro tra l’orca e le fere, che alla fine la scodano per darle una morte lunga e ridicola. È l’alba di martedì 7 ottobre, e D’Arrigo apre queste pagine lunghe e drammatiche (che costituiscono senza alcun dubbio uno dei vertici della narrativa moderna, degne di stare a fianco delle migliori pagine di Moby Dick), con una frase secca e memorabile: “Venne marte e marte veramente fu per l’orcaferone” (p. 758). Poco sotto, nella stessa pagina, si dice che l’alba aveva visto nello Stretto un sinistro arrivo di decine di branchi di fere da sud, dal Canale di Sicilia, ed è qui che, a chiusura dell’importante capoverso, riappare Gela:

“Erano le villane del Canale, quelle rustiche e rusticazze abitué che informate del grande e memorabile fatto che stava per succedere sullo scill’e cariddi, venivano a dargli anch’esse la loro incalcata e affogata all’orcaferone. Queste villane, della stessa razza delle abitué, ma brune o più brune ancora di quelle, d’un bruno affumicato, e non tanto flessuose, quanto torciute piuttosto, non tanto snelle, sfilate, eleganti, quanto corte e malecavate piuttosto, queste, se le abitué erano scabrose, esse erano pessime, con la mentalità grezza di rusticazze, il carattere tale e quale il colorito affumicato, tinto, pessimo, cioè a dire, passato di nero, mascherato col nerofumo, carattere di fere veramente africanesche, fere che bazzicano fra Biserta e Pantelleria, fra Malta e Gela”.

Ecco, dunque, cosa c’è “verso Gela” e davanti al suo mare: c’è che lì il male è ancora più malvagio, ancora più selvaggio, perché africanesco, al punto che lì le fere, emissarie della Morte, sono ancora più fere, più feroci, più ferali, e la peste, come ha sperimentato il beduino, è ancora più peste, ancora più pesti-fera. Ed è proprio con un “vento di puzze … pestifero” (p. 619) che per la prima volta ai cariddoti si annuncia “l’Orca, quella che dà morte, mentre lei passa per immortale: lei, la Morte marina, sarebbe a dire la Morte, in una parola” (p. 618). Già Virgilio aveva fatto dire a Enea che Gela prende il nome da un fiume “immane”, cioè – dato che l’attributo non può riferirsi alla portata (di certo relativamente modesta) – “terribile”, “inumano”, “feroce” per chissà quale misteriosa ragione, in un passo (III, 702) a noi gelesi ben noto che sembra riecheggiato in quello di Horcynus Orca in cui la trapanese passa davanti alla nostra città andando in senso inverso rispetto al troiano: ne è spia, tra l’altro, l’identico accostamento con Camarina, anche se in successione invertita (a dimostrazione della presenza di Virgilio nel romanzo, in un saggio più generale su Horcynus Orca, ampi estratti del quale sono apparsi di recente nel sito di letteratura italiana www.italialibri.net, ho illustrato puntualmente le analogie tra certe connotazioni dell’orca di D’Arrigo e le personificazioni che circondano le “fauci dell’Orco” in Eneide VI, 273-281).

Dunque, “verso Gela”, e in associazione con l’elemento liquido, lo stesso Virgilio situava l’“immane”, e “immane”, in tutte le sue sfumature semantiche (“gigantesco, misterioso, inimmaginabile”, p. 617; “immensa, nera, spaventevole”, p. 622; “nero, gigantesco, solitario, immortale”, p. 659; “immensa, nera, solagna, mortifera”, p. 662) è l’“orcaferone”, cioè il mare, perché il mare e l’orca, in una pagina grandiosa (cfr. p. 955), sono ‘visti’ con fantasia onirica da ’Ndrja come l’uno la metamorfosi dell’altra attraverso la Morte, e sono, pertanto, la stessa Morte in due sue diverse ma commutabili epifanie. Si può allora concludere dicendo che nella topografia simbolica del mare di Horcynus Orca – insieme luogo geografico e luogo testuale in cui tutto muore o è morente, compreso lo stesso “animalone” che non solo dà per natura la morte, ma è ed ha la Morte nel corpo e nel nome (orcinus / Orcus / orca) – dirigersi “verso Gela” significa inoltrarsi nel cuore stesso dell’“immane”, ovvero, parafrasando lo stupendo endecasillabo con cui si chiude il romanzo, andare dentro, più dentro dove il male è male.


Autore : Marco Trainito

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I Vostri commenti
E' stata piacevole questa serata nella quale la mia lettura è interrotta dalla curiosa voglia di saper qualcosa in piu' sull' autore dell'opera che da gg. mi sta impegnando e coinvolgendo...allora navigando -e scoprendo che di lui non è solo

Autore: samuela 
data: 10/11/2007
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