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notizia del 24/09/2006 messa in rete alle 23:15:25
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Quel che resta della Fallaci
"Chi parla bene dei morti soltanto perché sono morti mi infastidisce come i preti che con un ego-te-absolvo in extremis credono di liquidare i peccati commessi durante una vita". Così scriveva Oriana Fallaci (nella foto) nelle ultime pagine de L’Apocalisse, il lungo post-scriptum (quasi un libro nel libro) all’edizione ampliata dell’autointervista dell’agosto 2004, uscita nel dicembre dello stesso anno col titolo Oriana Fallaci intervista sé stessa. L’Apocalisse. Si tratta, dunque, dell’ultimo libro licenziato dalla scrittrice, morta il 15 settembre scorso per un male incurabile. Nel caso specifico, lei introduceva con le parole citate il suo ennesimo attacco a Yasser Arafat, morto da pochi giorni (11 novembre 2004), nei cui confronti nutriva un disprezzo profondo (e ampiamente giustificato) sin dal 1972, anno della sua famosa intervista al leader palestinese. "Quindi", prosegue la Fallaci, "pane al pane e vino al vino: di Arafat non resta nulla fuorché il suo patrimonio personale".
Ora che Oriana Fallaci è morta, possiamo far nostre le sue parole e tentare un bilancio equilibrato della sua eredità di scrittrice e di intellettuale impegnata, a partire dall’11 settembre 2001, in una lotta furiosa contro il mondo islamico, a suo dire intrinsecamente votato al terrorismo, e contro quella parte dell’Occidente che ancora non ha percepito il pericolo apocalittico cui, sempre a suo dire, sarebbe esposta la nostra civiltà.
Cosa resta, dunque, di Oriana Fallaci? A mio parere, di lei fortunatamente resta molto, ma sfortunatamente potrebbe restare molto meno. Questo perché l’enorme ed effimero successo di vendita della sua trilogia dell’odio (La rabbia e l’orgoglio, 2001; La forza della ragione, 2004; Oriana Fallaci intervista sé stessa. L’Apocalisse), uscita persino in un bel cofanetto-regalo, rischia di occultare il valore dei suoi libri precedenti (l’ultimo romanzo, Insciallah, risale al 1990), se non addirittura di trascinarlo con sé in quell’oblìo cui essa è destinata inevitabilmente nel giro di pochi anni. La prosa rabbiosa e incisiva della trilogia, infatti, doveva la sua forza di persuasione quasi sciamanica – beninteso verso quel pubblico particolarmente sensibile alla propaganda guerrafondaia – al fatto che l’autrice vivesse e lottasse col suo uditorio, che quasi poteva sentirne il grido di battaglia dietro la parola stampata. Man mano che i tre libri uscivano, anche il lettore più autocontrollato tendeva a sorvolare sulle imbarazzanti semplificazioni storiche e sulle improbabili argomentazioni della scrittrice, per abbandonarsi al fiume in piena del suo pathos retorico e della sua chiamata ideologica alle armi. Ma ora che la sua voce si è purtroppo spenta per sempre, la rilettura di quei libri, restituita al semplice ascolto della loro lettera nuda, lascia dietro di sé l’impressione sgradevole del vomito rappreso sul pavimento. Rileggendo in questi giorni L’Apocalisse, ad esempio, ne ho avvertito solo l’unilateralità vacua delle tesi, la miseria storica del contenuto informativo e la bruttezza quasi insopportabile della prosa. Non starò qui a indugiare sui dettagli. Chi volesse avere un quadro ampio e approfondito delle obiezioni precise che possono essere mosse all’ultima Fallaci, può leggere il bel contro-pamphlet di Giancarlo Bosetti uscito alla fine del 2005, Cattiva maestra. La rabbia di Oriana Fallaci e il suo contagio (Marsilio Editore). Bosetti, giornalista e filosofo di ispirazione popperiana, smonta punto per punto l’impianto argomentativo della Fallaci e mostra i pericoli di un approccio che sposa in pieno lo stile del pensare-per-nemici tipico dei peggiori nemici della società aperta (terroristi islamici compresi). Mi limito solo a un esempio, peraltro non citato da Bosetti. Ne L’Apocalisse, nel corso di una carrellata di omicidi compiuti da musulmani, la Fallaci così ricorda l’assassinio di Bob Kennedy (4 giugno 1968): "strano (…) che nessuno dica mai come morì Bob Kennedy. Morì ucciso da un mussulmano che si chiamava Siran Siran, ricorda? Un mussulmano che ancora oggi (venne condannato all’ergastolo) dice d’averlo ucciso perché era amico degli ebrei. Che essendolo danneggiava la causa palestinese" (p. 250). Ora, quello che la Fallaci fa passare per taciuto è esattamente quello che si dice normalmente sulla base della versione frettolosamente fornita dagli inquirenti americani. Strano, invece, è che lei, che pure ha conosciuto benissimo quello che accadeva in America in quegli anni (due mesi prima era stato ucciso Martin Luther King e c’è una foto che la ritrae seduta accanto a Bob Kennedy), oggi rievochi quel fatto in termini così semplicistici e appiattiti sulla versione ufficiale di comodo. Non occorre aver letto le oltre 750 pagine di Sei pezzi da mille di James Ellroy (2001) per sapere che le cose sono molto più complesse e inquietanti, come mostra qualsiasi ricostruzione dettagliata dell’agguato (l’antisemitismo delirante di uno psicopatico giordano di origine palestinese trapiantato in America fu al massimo l’elemento su cui fecero leva i mandanti, con ogni probabilità americani in qualche modo interessati all’elezione di Nixon, il presidente a dir poco più scorretto della storia degli Stati Uniti).
Non c’è nulla, nella trilogia, che sia anche lontanamente paragonabile ai libri precedenti, alla loro limpidezza espressiva, alla loro capacità di restituire in trasparenza la complessità delle trame della storia, al loro rigore nella ricostruzione meticolosa dei fatti, alla loro prudenza equilibrata nella distribuzione delle ragioni e dei torti.
In Niente e così sia (1969), il diario romanzato di un anno nell’inferno del Vietnam in qualità di inviata, la Fallaci non mostrava alcuna pietà nei confronti delle ragioni bassamente colonialiste e rozzamente maccartiste degli americani (mentre negli ultimi anni era dogmaticamente appiattita sulle veline del Pentagono per quanto riguarda le ‘ragioni’ degli americani contro il terrorismo islamico e gli ‘Stati canaglia’ del Golfo). In Intervista con la Storia (1974 &1977) la Fallaci si rivelò come una delle più grandi giornaliste del mondo, ed è ancora oggi un piacere ammirare non solo le straordinarie e coraggiose interviste ai potenti di allora (qualunque giornalista invidia il modo in cui affrontò Kissinger mettendone a nudo il machiavellico cinismo) ma anche le puntigliose e informatissime note introduttive alle singole interviste (che sono delle autentiche lezioni di storia, mentre i suoi ultimi scritti abbondano di inesattezze plateali e ad hoc). In Un uomo (1979), la favola drammatica della sua storia d’amore con Alekos Panagulis, la Fallaci coglieva l’occasione per una impeccabile ricostruzione storica della tragedia della Grecia durante la dittatura dei Colonnelli nella prima metà degli anni Settanta. In Insciallah (1990), il ponderoso romanzo sul Libano martoriato dei primi anni Ottanta, il conflitto arabo-israeliano era visto con gli occhi della pietà umana e con quello spirito equanime che scandaglia la complessità delle cose e mette sullo stesso piano la barbarie di un attentato terroristico islamico contro i soldati francesi e americani e l’orrore della strage di donne e bambini palestinesi a Sabra e Shatila, compiuta dalle milizie della Falange cristiana libanese col tacito assenso degli occupanti israeliani (altro che il manicheismo cieco e assoluto degli scritti degli ultimi anni, per cui il Mostro dell’Apocalisse biblica è l’Islam e l’Angelo che lo dovrà imprigionare negli abissi è l’Occidente ebraico-cristiano).
Sono queste le opere della Fallaci che resteranno e che, rilette oggi, hanno ancora molto da insegnarci. Si pensi all’Iraq, per molti versi un altro sanguinoso Vietnam, oppure alla nuova questione-Libano e ai nostri soldati “di pace” baldanzosamente inviati laggiù forse solo per ripetere il drammatico fallimento di quelli mandati oltre venti anni fa e poi diventati protagonisti ambigui e problematici di Insciallah.
C’è, infine, anche la speranza che la Fallaci ci regali da morta un’altra opera memorabile. La trilogia e la malattia, infatti, hanno rallentato la stesura del romanzo cui la scrittrice lavorava da molti anni. Non sappiamo se sia riuscita a portarlo a termine (alla fine del 2004 non era ancora pronto: cfr. L’Apocalisse, p. 220), ma è sicuro che la Rizzoli lo pubblicherà e sarà comunque uno dei casi editoriali più importanti del prossimo futuro. Lei stessa voleva che il suo ultimo romanzo uscisse postumo.
Autore : Marco Trainito
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