|
notizia del 06/10/2013 messa in rete alle 20:30:20
|
In libreria per l’editore Navarra Borgese e la Tempesta del nulla
Con evidenti differenze rispetto anche alle opere più mature del Verismo, non pochi scrittori siciliani hanno contribuito a costruire e definire la pratica letteraria del Novecento. Oltre ai due premi Nobel − Pirandello (1934) e Quasimodo (1959) – per determinare una mappatura della nostra contemporaneità è, dunque, necessario fare riferimento in primis a Sciascia e Tomasi di Lampedusa, ma anche ad autori come Lucio Piccolo, Buttitta e Cattafi; Vittorini e Ripellino; Bonaviri e D’Arrigo; Bufalino e Consolo; Pizzuto e Brancati; Agnello-Hornby e Maraini; e perfino l’Elsa Morante di Menzogna e sortilegio, per arrivare a quell’unicum che è Silvana Grasso. Si tratta, certo, di scrittori poco assimilabili tra di loro. La ‘insularità’, cioè, non è la qualità risolutiva per costringerli nel perimetro di una casa comune, semmai quello che li accomuna tra di loro e ai Padri è la vocazione al Realismo (cfr. M. Onofri, La modernità infelice, 2013).
Oltre a questi autori chi meriterebbe un po’ più d’attenzione da parte della critica e dal mondo editoriale sono Ercole Patti e Giuseppe Antonio Borgese. Si tratta di due intellettuali di caratura europea di cui oggi, però, è difficile reperire molti dei titoli ‘minori’.
In questa breve nota mi soffermerò su Giuseppe Antonio Borgese (Polizzi Generosa, 1882 – Fiesole, 1952), autore di Rubé (1921), un’opera matura sia stilisticamente sia nella costruzione narratologica che riesce a presentare, con la stessa potenza di Svevo e Moravia, l’homo novecentesco: ambizioso ma fallito, apatico e annoiato, nevrotico e indeciso. Anche il suo lavoro di studioso ebbe un eccellente incipit: ebbe il pieno appoggio e consenso di Croce, e per lui a Milano fu creata la cattedra di Estetica e Storia della critica. Nel 1931 parte per una serie di conferenze per gli Stati Uniti, ma non tornerà fino al 1949. Borgese così si autoesilia e rifiuta di prestare il «giuramento fascista» (cfr. a questo proposito l’ottimo volume di G. Librizzi, No, io non giuro, 2013).
In America oltre a insegnare in prestigiose università, scrive un saggio fondamentale per comprendere la dittatura: Goliath, The march of Fascism (1937). L’editore Navarra ripubblica oggi un racconto lungo di Borgese, Tempesta nel nulla (1931). La storia è quella scritta in prima persona dall’autor/actor durante un soggiorno sui monti dell’Engadina (tanto simili alle Madonie dell’autore; vedi p. 57) insieme alla figlia dall’ipocoristico nome di Nanni (che è lo stesso della figlia di Borgese e a cui è dedicato il libro).
La vicenda riprende il topos dell’ascesa del monte e del viaggio: entrambe instese come esperienze conoscitive. I modelli sono ovviamente quelli di Petrarca sul Mont Ventoux, e di Dante (p. 49). Il resoconto delle varie scalate rappresenta la possibilità di riflettere su questioni morali ed esistenziali. Per rivedere questi luoghi e provare a comprenderne meglio le atmosfere, sia quella siciliana sia quella alpina, è stato allegato al volume un bel reportage dei fratelli Schimmenti. Per una introduzione e un’analisi complessiva rimando ai due bei saggi di Giudicetti e di Librizzi, che è anche presidente della fondazione intitolata a Borgese.
A me, invece, preme evidenziare che − invero insieme a Nietzsche (p. 46) − Leopardi sia la fonte primaria del libro. Innanzi tutto il titolo ricorda il canto XXIV; da L’infinito si riprendono calchi lessicali (pp. 30-31), sintagmatici (pp. 47 e 49) e locuzioni: «fra i monti avevo vaneggiato di sentire l’Eterno!» (p. 45); il canto XXIII offre il modello del pastore (p. 31); mentre il XXVII è citato quasi integralmente: «l’Amore e la Morte, così sono fratelli» (p. 60). Porre in luce questi testimoni vuole aiutare il lettore a comprendere che quella di Borgese è però una rilettura in chiave novecentesca, in bilico tra l’ironia pirandelliana e la ‘negatività’ montaliana. La tempesta, difatti, è vanificata dall’avverbio «nulla»; lo scambio con il lemma «pecoraio» sottolinea il tentativo di combinare il registro mediano della prosa con quello lirico; l’intuizione intellettuale dell’eterno e del divino è solamente vaneggiata (p. 45) e assimilata «nei lacci della […] mente» (p. 47). Capire allora che questa lettura leopardiana è falsata (misreading) si pone come un modus interpretandi forse utile a capire la rilevanza di Borgese scrittore modernista, ma anche all’interno della civiltà letteraria che viene subito dopo.
Autore : Gandolfo Cascio
» Altri articoli di Gandolfo Cascio
|
|
|
In Edicola |
|
Cerca |
Cerca le notizie nel nostro archivio. |
|
|
|
|