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notizia del 25/08/2013 messa in rete alle 19:45:49
Parenti serpenti nel covo di vipere di Andrea Camilleri
Il nuovo libro di Andrea Camilleri, Un covo di vipere, sembra un giallo ma non lo è. È un poliziesco perché soddisfa i criteri essenziali del genere: ci sono il morto e il suo assassino (anzi due) e ci sono l’investigatore e la soluzione del mistero. Quest’ultimo aspetto è importante perché è nella certezza che il caso venga risolto che s’invera il senso generale del poliziesco: ossia che nella lotta tra il bene e il male il primo abbia la meglio e che l’ordine venga ricostituito.
La sua funzione è dunque etica oltre che letteraria. Il fatto, però, è che già a metà del libro s’intuisce sia chi ha commesso il delitto sia il movente. Si aggiunga poi che le motivazioni dell’omicidio sono così gravi che il lettore viene portato a instaurare una certa empatia con chi l’ha commesso, giacché «’na cosa è mannare ’n galera a uno che ha ammazzato un galantomo e ’n’autra cosa è mannare ’n galera a uno che ha ammazzato a un fitenti farabutto» (p. 51).
Insomma, ‘due pesi e due misure’. Un tale atteggiamento, a prima vista, fa pensare a Delitto e castigo di Dostoevskij, giacché s’inizia a dubitare sull’imparzialità della Giustizia. Questo è di certo uno dei temi del libro, tuttavia a me pare che sia un altro quello che interessa per davvero lo scrittore: vale a dire la famiglia. Camilleri per trattarlo ha scelto la situazione più scabrosa ad essa conessa: l’incesto (argomento già esplorato ne La forma dell’acqua e ne La luna di carta) e propone una storia dai toni fortemente tragici che trova la sua fonte primaria nell’Elettra sofoclea.
La famiglia viene ritratta da Camilleri negli stessi toni con cui l’ha fatto Moravia (penso a Gli indifferenti e a Il viaggio a Roma), ovvero intrecciando l’ossessione erotica a quella per il denaro. Che questa sia la preoccupazione principale del racconto ci viene suggerito già nella copertina con il quadro di Donghi intitolato Battesimo e che ci illustra una famiglia che nello sguardo apatico e indifferente pare avere qualcosa di disfunzionale.
A questa tematica si collega quella della solitudine che Montalbano condivide con un barbone e che con un certo orgoglio vuole dimostrare che fuggire dalla famiglia (il matrimonio con Livia) non sia questione di vigliaccheria ma, semmai, di libero arbitrio. Quest’ultimo di Camilleri (sebbene scritto prima di altri apparsi più recentemente) è dunque un libro importante per la sostanza maneggiata con cautela e per la capacità di portare il lettore a riflettere in modo equilibrato e fuori dal conformismo più soffocante.
A chiusura di questi miei appunti, vorrei aggiungerei ancora due note. La prima sulla lingua, fatto inevitabile quando si discute un libro di Camilleri. Nel libro c’è molto siciliano, più che altrove, tant’è che Montalbano ammonisce ironicamente Fazio quando gli parla in italiano (p. 73). Una tale scelta linguistica mi pare che ormai vada oltre lo scopo mimetico e a tratti stanca. Non dico per la difficoltà ma piuttosto perché si avverte un certo compiacimento letterario che lede alla struttura di un romanzo per il resto bello.
La seconda riguarda un ‘errore’ nella trama. Montalbano a pagina 175 dà al collega Mazzacolla un appuntamento per vedersi l’indomani, eppure se ne dimentica e non se ne sa più nulla. La fiducia in Camilleri è tale che credo si possa trattare magari di una strategia narrativa, il dubbio, però, rimane.
Autore : Gandolfo Cascio
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