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notizia del 02/09/2004 messa in rete alle 18:26:10
Precisazioni tecniche sul modo di analizzare un testo letterario
Con mia grande sorpresa ho letto sul “Corriere” di sabato 21 agosto le “note” critiche di Carmelo di Pietro alla mia recensione del suo romanzo La mano occulta, apparsa sullo stesso giornale del 24 luglio. E la sorpresa nasce dal fatto che tali note suonano inaspettatamente risentite nei confronti delle mie opinioni su alcuni limiti narrativi dell’opera, espresse, mi pare, con chiarezza, rispetto e spirito costruttivo. Se rispondo, però, è solo per fare alcune precisazioni tecniche e di ordine generale, non certo per scatenare una polemica personale fuori luogo (soprattutto alla luce dei sentimenti di stima e affetto che mi legano all’autore).
Di Pietro mi rimprovera sostanzialmente due cose:
1) di aver erroneamente ipotizzato un’identificazione tra un suo personaggio, il “viandante”, e l’“autore”, il quale, come egli precisa, ha scelto e condotto una vita non ai margini della società, come appunto Nicola, ma improntata all’impegno politico e sociale;
2) di aver avanzato le mie osservazioni critiche sulla base di una indebita contrapposizione tra l’opera reale e un’ipotetica opera “virtuale” frutto delle aspettative tipiche di un lettore giovane.
Rispondere a questi due rilievi è molto facile, semplicemente perché non colgono nel segno e nascono da un palmare fraintendimento di alcuni passaggi della mia recensione.
Per quanto riguarda il primo punto, laddove di Pietro scrive che "l’ipotesi di identificare nel “viandante” l’autore è mal riposta" e continua elencando la sua più che decennale attività politica, non posso fare a meno di far notare (a costo di apparire pedante) che qui egli confonde platealmente se stesso in quanto autore empirico con il narratore del suo romanzo, che, com’è noto, in sede narratologica e di critica del testo sono due cose affatto diverse (per riecheggiare un celebre esempio russelliano, se si scoprisse che l’autore di Waverley non è Scott, cambierebbe solo l’autore empirico, non certo il narratore del romanzo). Non a caso, nel punto in questione, io ho usato il termine “narratore”, tenendo appunto ben presente una distinzione che ormai è un luogo comune nelle moderne teorie della narrazione (basti pensare a Umberto Eco).
Quando scrivevo che “il moralismo un po’ sempliciotto” di Nicola “in parte coincide con quello del narratore”, e riportavo un passo in cui il narratore commenta moralisticamente il “ridacchiare” del notaio Lipardi, volevo semplicemente sottolineare una comunanza di prospettiva ideologica tra Nicola e la voce narrante, non certo tra Nicola e l’autore empirico Carmelo di Pietro (il quale non ha nulla a che fare con le strutture e le strategie testuali interne del suo romanzo, tant’è vero che potrebbe persino non averlo mai scritto ed essere il prestanome di un timido romanziere che vuole conservare l’anonimato), delle cui vicende biografiche sono sufficientemente informato per sapere che non è stato né un vagabondo né uno stilita.
La mia, quindi, era solo un’osservazione tecnica su una precisa scelta narrativa dell’autore (e vi risparmio l’ulteriore sottigliezza della questione se a operare questa scelta sia l’autore empirico o l’Autore Modello), alla quale è fuori luogo rispondere ri-mandando ai verbali delle sedute consiliari, che riguardano aspetti biografici dell’autore empirico del tutto irrilevanti in sede di critica letteraria.
Per quanto riguarda il secondo punto, mi basterà osservare che il commisurare il testo reale a certi standard narrativi non è affatto un’operazione ingenua tipica del lettore giovane e inesperto, ma una procedura ermeneutica perfettamente legittima, purché sia condotta con equilibrio critico e razionale; senza contare che la capacità di scatenare nel lettore ipotesi e aspettative da passare al vaglio delle intenzioni del testo è da molti considerata una misura del valore estetico di un’opera. Certo, se un lettore che considera ‘misura di tutte le cose’ le opere del Marchese de Sade butta alle ortiche I promessi sposi – osservando che Manzoni, per essere credibile, avrebbe dovuto da un lato far stuprare e seviziare Lucia dai bravi come una novella Justine e dall’altro rappresentare la Monaca di Monza come una novella Juliette – compie un’operazione ermeneuticamente delirante. Ma se, di fronte a un’opera come La mano occulta, un lettore rimpiange di non aver sentito il profumo sciasciano, al massimo gli si può rimproverare di volere troppo da un’opera destinata ai ragazzi delle scuole medie, non certo di essere un cattivo sacrestano dell’autore-officiante.
Infine, quando lamentavo la presenza di “qualche zeppa narrativa di troppo” non commisuravo il testo a vaghe e infondate aspettative, ma a standard di scrittura letteraria rapida, efficace ed espressiva (che naturalmente possono non essere condivisi da tutti), e avevo in mente passi ben precisi. Per esempio, quando leggo che il boia stacca con la mannaia la testa del condannato "facendola cadere in una cesta, ivi poco prima collocata" (p. 158), non posso fare a meno di pensare a quei personaggi dei romanzi d’appendice che si alzano in piedi dalle sedie su cui stavano seduti.
Autore : Marco Trainito
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