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notizia del 29/01/2007 messa in rete alle 17:52:50
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Dialogo con Umberto Eco
Nel tardo pomeriggio del 19 gennaio scorso, a Milano, sembrava di essere in una città di mare una sera di primavera. Mentre in Piazza Duomo e in via Dante la gente affollava i tavolini all’aperto dei locali godendosi il miracolo dei 20 gradi centigradi, la Biblioteca Trivulziana, al Castello Sforzesco, ospitava la presentazione dell’ultimo “Almanacco del Bibliofilo”, curato da Mario Scognamiglio e dedicato quest’anno alle utopie (con scritti d’invenzione di autori vari, tra cui Giulio Andreotti, Oliviero Diliberto e Matteo Collura). L’“Almanacco” è prodotto dall’Aldus Club, un’associazione internazionale di bibliofili di cui è attualmente presidente Umberto Eco. Mattatore della serata, cui ha preso parte anche Vittorio Sgarbi in qualità di Assessore alla Cultura del Comune di Milano, era proprio Eco, che ha letto il suo esilarante racconto (incluso nel volume ma già anticipato su “La Repubblica” del 20 dicembre 2006) su un infelicissimo regno d’Utopia regolato dalla cosiddetta saggezza popolare contenuta nei proverbi, la cui notizia, nella finzione narrativa, si troverebbe in un borgesiano libello anonimo e privo di data. Naturalmente, com’è tipico di Eco, il testo contiene innumerevoli allusioni all’attualità politica italiana - caratterizzata dal conformismo e da una forma di populismo mediatico imposto da Berlusconi e seguito per amore o per necessità anche dai suoi avversari - soprattutto nei suoi aspetti più grotteschi e ignobili. Si veda, ad esempio, la situazione della giustizia in questa molto familiare isola di Utopia: «i giudici erano screditatissimi in base al cosiddetto Primo Principio della Bandana, chi ha torto fa clamore contro l’accusatore (il Secondo Principio asseriva che chi ruba poco va in galera, chi ruba tanto fa carriera)».
Avendo avuto la possibilità di assistere all’evento, non mi sono lasciato sfuggire l’occasione di scambiare alla fine due chiacchiere con Eco nel corso dell’intervista rilasciata a una mia amica, la docente di lingue straniere e giornalista radiofonica di Radio Capodistria Marialaura Bidorini, di Venezia. Lo spunto della discussione, che si è svolta in una suggestiva saletta di lettura stracolma di vecchi e preziosi volumi, l’ho tratto dai doni votivi che ho umilmente portato al Maestro: il mio volumetto su Karl Popper e la televisione (pubblicato dal compianto Gaetano Dainotto nel 2002), che contiene anche una decina di pagine sull’Eco massmediologo dei primi anni ’60, e il mio saggio interpretativo su La misteriosa fiamma della regina Loana, l’ultimo romanzo di Eco uscito nel 2004 (il saggio è uscito nello stesso anno sulla rivista letteraria “Altroverso”).
Incoraggiato dalla sua sorprendente disponibilità al dialogo, e dopo aver discusso con lui del significato del suo occasionale uso del pensiero di Popper (questione troppo tecnica per essere riferita qui), ho chiesto a Eco un chiarimento su una ipotesi interpretativa da me avanzata nel saggio su Loana. Questa parte della conversazione è stata registrata in audio ed è per me motivo di grande emozione intellettuale, perché mi sono reso conto di aver contribuito inavvertitamente a riprodurre la situazione, paradossale e misteriosa, di un colloquio tra libri all’insaputa dei loro autori, che lo stesso Eco ha descritto molti anni fa in merito al rapporto tra Borges e Peirce. Volendo applicare alle storie di detection di Borges la logica ipotetica peirciana, all’inizio del terzo paragrafo del saggio “L’abduzione in Uqbar” (che nel titolo evidentemente allude a Peirce e al famoso racconto Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, che apre le Finzioni di Borges), Eco scriveva: «Borges sembra aver letto tutto (e anche di più, visto che ha recensito libri inesistenti). Tuttavia suppongo che non abbia mai letto i Collected Papers di Charles Sanders Peirce, uno dei padri della semiotica moderna. Potrei sbagliarmi, ma mi fido di Rodriguez Monegal, e non trovo il nome di Peirce nell’indice dei nomi della sua biografia borgesiana. Se sbaglio, sono in buona compagnia. In ogni caso, se Borges abbia letto o meno Peirce, non mi importa. Mi pare un buon procedimento borgesiano assumere che i libri si parlino tra loro e non è necessario che gli autori (che i libri usano per parlare – una gallina è l’artificio che un uovo usa per produrre un altro uovo) si conoscano l’un l’altro. Il fatto è che molti dei racconti di Borges sembrano esemplificazioni perfette di quell’arte dell’inferenza che Peirce chiamava abduzione o ipotesi, e che altro non è che la congettura» (in Sugli specchi e altri saggi, Bompiani 1985, pp 165-166).
Quando lavoravo al mio saggio su Loana e mi interrogavo sul mistero di Lila, la ragazza amata dal protagonista Yambo, mi sono imbattuto in un problema analogo. C’è infatti un romanzo di Robert Pirsig, uscito nel 1991 (cioè nello stesso anno in cui si svolge il romanzo di Eco), che si intitola proprio Lila e che per giunta contiene sorprendenti analogie con La misteriosa fiamma della regina Loana. Allora mi sono chiesto se Eco conoscesse quest’opera dell’autore del celebre Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta (1974) e sono giunto alla seguente conclusione ipotetica: « Il minimo che si possa dire è che saremmo di fronte a una coincidenza singolare se Eco avesse costruito la sua Lila ignorando Lila di Pirsig. Nelle opere di Eco successive al 1991 non si trova (mi pare) alcun accenno a questo romanzo. Ma in un articolo apparso su “L’Espresso” del 22 maggio 1983, “La moltiplicazione dei media”, poi incluso in Sette anni di desiderio (Bompiani 1983), si trova un cenno esplicito a Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta: non è molto, certo (il primo romanzo di Pirsig è stato un cult negli anni Settanta e oltre, e non poteva sfuggire all’attenzione di uno studioso della cultura di massa come lui), ma basta per dire che Eco conosce abbastanza bene almeno il primo Pirsig. Io sono portato a congetturare che egli conosca bene anche Lila e in qualche modo abbia voluto dare una risposta – pessimistica, scettica, amara, ironica e quasi solipsistica – da ‘pensiero debole’ occidentale alla presuntuosa, ottimistica e totalizzante Metafisica della Qualità di Pirsig, basata sulla sapienza degli Indiani d’America e degli indiani dell’India e ancorata, occorre ricordarlo, alla dolorosa e illuminante esperienza personale della follia e del manicomio».
Si può comprendere, allora, quanto fossi ansioso di interrogare Eco proprio su questo punto. Ecco la trascrizione del dialogo (con leggere modifiche):
[– Professore, mi tolga una curiosità. Nel mio saggio su Loana, un romanzo che secondo me è vergognosamente sottovalutato, io ho svolto alcune considerazioni sul nome “Lila”, che lei declina altre volte: “Lia” nel Pendolo, “Lilia” nell’Isola del giorno prima… Però c’è un romanzo di Pirsig che s’intitola Lila e ho trovato delle analogie incredibili…
«La fanciulla di cui si parla in Loana, Lila Saba, aveva un nome abbastanza simile [a Lia e Lilia], evidentemente senza rendermene conto. La Lilia dell’Isola del giorno prima l’ho trovata in Giambattista Marino, e ogni volta che dovevo metter in scena una creatura femminile mi veniva questo nome (…)».
– L’analogia strana è che il romanzo di Pirsig è stato pubblicato nel ’91, proprio l’anno in cui è ambientato Loana!
«Ho presente La motocicletta, ma non mi viene in mente quel romanzo, non l’ho letto. Ma non è un nome incredibile. Si chiama Lila Saba perché il primo nome è simile e il cognome è quello di un poeta. Poteva essere Ungaretti. Ho pensato solo dopo che con quel cognome si poteva pensare a una ragazza ebrea, invece no, non era voluto, ho preso un poeta al posto di un altro»].
Come si vede, per sua stessa ammissione Eco non aveva letto Lila di Pirsig all’epoca di Loana, e quindi la mia congettura era falsa. Ma questo fatto rende le coincidenze ancora più sorprendenti, perché è come se si fosse realizzato davvero quello che nel passo di Eco su Borges e Peirce, citato sopra, era presentato sotto forma di ironico paradosso: così come le galline possono essere considerate artifici creati dalle uova per produrre altre uova, allo stesso modo gli scrittori (e anche i lettori) possono essere considerati solo come degli artifici che i libri creano per parlare tra di loro.
Autore : Marco Trainito
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