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Corriere di Gela | Il velo del mito su Gela nel Disìo di Silvana Grasso
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notizia del 29/09/2005 messa in rete alle 15:17:37
Il velo del mito su Gela nel Disìo di Silvana Grasso

Narra Ovidio (Metamorfosi, V, 409-437) che Dite, dopo aver rapito la piccola Proserpina nel bosco che circonda il lago di Pergusa, giunse col suo carro nel tratto di mare chiuso tra la fonte di Ciane e quella di Aretusa. Qui il dio degli Inferi subì un oltraggio inaudito ad opera di Ciane, celeberrima inter Sicelidas nymphas, la quale ebbe l’ardire di emergere dalle acque, allargare le braccia e intimare al dio di fermarsi (nec longius ibitis!), aggiungendo che se intendeva diventare genero di Cerere avrebbe dovuto chiederle il permesso, così come lei stessa aveva sposato il fiume Anapi convinta dalle sue preghiere (exorata) e non terrorizzata (exterrita). Allora il dio, in preda all’ira per un tale affronto, squarciò con lo scettro il fondo del lago e si precipitò da lì stesso nel Tartaro, mentre Ciane, angosciata per il brutale rapimento e per la violazione della fonte di cui era la divinità, covò un tale inconsolabile vulnus dentro di sé che finì per liquefarsi e confondersi con l’acqua.
In questo episodio marginale del quadro grandioso delle metamorfosi ovidiane, il meraviglioso e sacrilego gesto di rivolta della piccola ninfa che osa sfidare un dio oscuro e dal potere terribile offre una chiave di lettura imprescindibile per penetrare nel tormentato mondo interiore dell’eroina dell’ultimo romanzo di Silvana Grasso, Disìo (Rizzoli, settembre 2005). Infatti, allorché Memi Santelìa, trasferitasi a Milano dalla Sicilia orientale per esercitare la professione di psichiatra, e soprattutto per sfuggire al dolore e alla colpa d’origine di figlia non voluta e mai amata dalla madre, decide di cambiare identità in una ennesima illusione di metamorfosi che però rimarrà solo anagrafica, sceglie come nome proprio quello della ninfa siciliana. In quel momento, però, Memi ricorda solo la metamorfosi in acqua della ninfa (cfr. p. 52), e non la sua causa, perché nel suo vissuto di bambina insidiata a otto anni da un vecchio venditore di ghiaccio con un occhio di vetro e mani bellissime e incantatrici c’è il sentimento vago di un “gigante d’acqua” (p. 49) che, sotto forma di grandine, aveva interrotto gli abusi dell’uomo, proteggendola come una divinità propizia. Non a caso, allorché, dopo il brutale assassinio di due giovani ex-tossicodipendenti no-velli sposi da lei curati al SerT, si sentirà sconfitta da un Potere inafferrabile in cui mafia e legalità si identificano in una tragicomica e grottesca forma istituzionale dove la retorica visibile del Diritto è il linguaggio con cui la pratica invisibile del Crimine si autorappresenta e autocelebra davanti alla popolazione asservita, Memi sarà spinta dall’inconsolabile vulnus a cercare, come Ciane, la morte per acqua in un tentativo (fallito) di suicidio, penetrando per qualche metro "in Mare come un feto, che già sfrattato, invoca ancora un utero di madre" (p. 248).
Della Ciane ovidiana Memi eredita però anche il coraggio della sfida lanciata al potere infero, e questo è un fatto che il testo e l’a-stuzia del narratore implicito tengono nascosto, lasciando al lettore il compito di esplicitarlo allorché assisterà all’odissea della protagonista nel regno di Emilio Mangiulli, l’Anima Mundi di una Città (la nostra) sequestrata dal Male, il “Funesto Demiurgo” (direbbe Cioran) di un microcosmo di morte civile. Cos’altro è, infatti, la sfida di Memi a Emilio, detto l’Anima, che come un Cicikov incattivito dalla paralisi ha edificato il suo onnicomprensivo sistema mafioso con le anime morte di un’intera città, se non la ripetizione del gesto archetipico di Ciane che, indignata, intima l’alt al tremendo dio dei morti in fuga con la sua giovane e innocente preda?

In questo romanzo in cui quasi tutti inseguono impossibili metamorfosi escatologiche (come Memi ed Emilio) o soltanto ipocrite (come i Sostituti Procuratore Tonin e Parisiello, costretti a nascondere l’omosessualità per dovere d’ufficio, o il Presidente della Re-gione Onorino Mangiulli, un impotente inetto che passa le notti chattando e vivendo amplessi virtuali col nickname Eros98), Ovidio non è il solo a fornire palinsesti su cui il testo traccia i suoi percorsi di significazione. L’inesauribile cultura umanistica dell’autrice percorre ogni sentiero dell’enciclopedia letteraria per trovare snodi di senso, sicché la prosa, già lessicalmente ipertrofica per via delle frequentissime neoformazioni attinte dal dialetto e risonanti di etimologie greco-latine, si dispiega in una complessa trama ipertestuale che guizza da una citazione all’altra (più o meno esplicita) per scoprire i più disparati orizzonti tematici e simbolici. Appaiono così, qua e là, Omero, Alceo, i tragici, Teocrito, Properzio, Dante, Leopardi e molti altri; e non mancano naturalmente omaggi ai grandi maestri siciliani come D’Arrigo (sono “orcinùsi” gli occhi dei muli di cui Memi bambina sentiva lo zoccolo: cfr. p. 31), Sciascia, Brancati e persino Camilleri, presenti se non altro in certi grotteschi ritratti di una sicilitudine dominata dalla mentalità mafiosa (per cui la nostra città sembra di volta in volta o una Regalpetra con le sue ‘parrocchie’, o la Catania di Antonio Magnano con i suoi giochi di potere tra gerarchi fascisti, o una Vigàta senza il Commissario Montalbano) e da un disìo di potere che non di rado maschera una smaniosa sessualità repressa, talvolta solo patetica e impotente (basti pensare a Dolcemascolo, per il cui irascibilissimo maschilismo da signorotto di provincia Memi, che ha osato venire dal Nord e vincere un concorso nel suo feudo ospedaliero, è sempre e solo una “buttana”).
Tutt’altro che marginale è il ruolo della musica e, oltre a vari riferimenti a quella leggera (Battisti, Baglioni, Battiato, Morandi, Paoli), c’è l’onnipresenza della Turandot di Puccini, che, uscendo ossessivamente dall’hifi di Emilio, ne accompagna la parabola esistenziale in un gioco di simmetrie rovesciate in cui la mascolina Memi, la donna dall’identità incerta che vive senza amore nuziale (ma che ama maternamente i suoi pazienti, siano essi pazzi o tossicodipendenti) e pur non vista da lui per momentanea cecità gli ispira un bruciante e tutto spirituale disìo d’amore, di morte e di redenzione, funge da inconsapevole Calaf per il cuore dell’effeminato Demiur-go, più duro e tenebroso di quello di Turandot.
Ma è Lucrezio che, facendo capolino da una vaga allusione, fornisce uno dei più interessanti spunti per cogliere il senso non solo di quell’appassionata denuncia del tempus iniquum della nostra città che fa del romanzo anche un violentissimo pamphlet politico, ma anche di quella voluptas, di quel disìo che pervade e scalda di vitalismo positivo le pagine di un’opera per molti versi disperata ed estrema. In uno dei momenti più significativi del romanzo, Memi, che è andata a sfidare il Potere fin nel suo stesso inaccessibile covo, blocca la caduta del tetraplegico Emilio dalla scalinata di una chiesetta, e l’uomo vive intimamente il contatto della propria bocca con il collo della donna come "un coito infinito, arcano e potente" (p. 209). Questa scena è paragonata dalla voce narrante a due ‘quadri’ possibili: quello di un bambino sul grembo di una madre (che ha una ragione interna alla fabula perché a sette anni Emilio era finito sotto la madre, uccisa con tre colpi di lupara al cuore insieme al marito), e quello di "Marte guerriero dormiente in grembo a Venere" (p. 209). Ora, quest’ultima immagine, peraltro ben nota nell’iconografia mitologica, non può non far pensare all’inno a Venere che apre il De rerum natura, dove la celebrazione dell’alma Venus, disìo di uomini e dèi (hominum divomque voluptas), forza erotica che muove e propaga nella riproduzione ogni essere vivente, si intreccia con una preghiera alla dea affinché, patriai tempore iniquo, addolcisca con le parole il dio della guerra, quando questi, vinto solo dall’amore per lei, giace sul suo grembo, nonché con la dedica a Memmio, un uomo politico dalla cui stirpe il poeta si attende la salvezza per la comunità romana. È qui, dunque, che possiamo leggere in filigrana le più intime intenzioni del romanzo, dove sembra che solo la forza del disìo (parola che ricorre in questa forma ben 34 volte – 10 delle quali solo nella pagina 143 – e altre 8 volte in 5 forme flesse e derivate: “disii”, 2 volte; “disiùse”, 1 volta; “disìare”, 2 volte; “disiàto”, 1 volta; “disiava”, 2 volte), quando è sconvolgimento positivo, "marranzano per l’anima", "furore" di chi vuole "concupire dio" (p. 143), possa risvegliare le anime morte e dar cor-po a una forma di vita più civile e umana.

Il mito ovidiano di Ciane, inoltre, ha un’appendice minore posta più avanti (vv. 465-473) che contiene un’ulteriore e più complessa (perché obliqua) chiave interpretativa per la particolare situazione relazionale e comunicativa in cui si trova Memi con la madre e da cui nasce il romanzo stesso. Quando alla fonte di Ciane giunge Cerere, che nella dolorosa ricerca della figlia scomparsa ha percorso ogni altro mare e ogni altra terra, la ninfa, acqua nell’acqua, non può rivelarle direttamente il rapimento da parte di Dite, perché non ha bocca né lingua per soddisfare il suo disìo di parlare (et os et lingua volenti dicere non aderant). Tuttavia, Ciane compie un atto semiotico che ha in nuce ogni altro atto narrativo (ovvero la letteratura stessa, che è costruzione di un testo segnico da interpretare attraverso procedimenti inferenziali), facendo affiorare sulla cresta delle onde la cintura di Proserpina: è solo a questo punto che Cerere intuisce la verità, e il suo dolore di madre può esplodere e infuriare con le mani sui capelli e sul petto. In situazione specularmente rovesciata e ‘degenerata’ (Ciane e Proserpina diventano una sola persona; ed è il caso qui di sottolineare che è la stessa Memi-Ciane, proprio nella pagina cui mi sto riferendo, a identificarsi anche con Proserpina), Memi, ormai dottoressa Ciane Santelìa, non può interloquire con la madre sul letto di morte per cercare una riconciliazione estrema e sanare così la ferita di figlia perduta perché da lei rifiutata, e allora decide di ricordare e raccontare il proprio dolore, sublimandolo nell’atto semiotico della letteratura: "Raccontarti dovrei ora, madre, fidando nella tua morte certa (…), quel che ho taciuto a me (…). Se racconto, forse, potrei ancora (…) sapere (…) come furono i tuoi occhi" (p. 40).
Quanto appena detto offre lo spunto per concludere dando un rapido sguardo alla particolare tecnica narrativa del romanzo, in cui si assiste a un lento ma efficacissimo cambio di punto di vista col passaggio dalla prima persona (il racconto di Memi, che occupa i primi 16 capitoli sui 44 totali) al racconto impersonale e oggettivo (il lettore si accorge dell’avvenuto cambiamento della voce narrante solo nel ventitreesimo capitolo, allorché Memi è per la prima volta ‘nominata’ in terza persona nel discorso indiretto: cfr. p. 136). Per usa-re il linguaggio cinematografico, è come se la voce narrante fuori campo, il cui punto di vista fino a un certo punto del racconto coincide con quello della macchina da presa, entrasse lentamente in campo con una carrellata all’indietro, e lo spettatore vedesse im-provvisamente il corpo che ne è portatore interagire con gli altri personaggi. Questa duttilità nella tecnica del racconto ha ragioni espressive ben precise nello spazio (capp. 1-12: luogo natale, in provincia di Catania; capp. 13-44: Gela, camuffata da quattro asterischi) e nel tempo della narrazione (capp. 1-12: un’unica notte di giugno, quella della morte della madre, fino alle otto circa del mattino, quando Memi va alla stazione per prendere il regionale delle 8.10 per Catania; i capp. 13-44 coprono, con salti in avanti e ritorni vari, un periodo di tempo che va dal 3 settembre successivo, giorno del concorso in Ospedale, alla vigilia di Natale dell’anno dopo). Nei primi capitoli, infatti, Memi è sola, prima davanti al corpo della madre (la veglia notturna, narrata nello stile di una nenia dolorosa ma anche sottilmente sadica per via del complesso di Elettra di Memi, si estende per ben dieci capitoli), poi, la stessa mattina, tra le Case Popolari e la stazione del “natìo borgo selvaggio” (capp. 11-12), e infine, tre mesi dopo, al suo arrivo a ‘Gela’ per partecipare al concorso (capp. 13-14). Dopo un improvviso salto di un anno (cap. 15), il racconto torna indietro al giorno del concorso (cap. 16), e da questo momento in poi Memi è nel regno di Dolcemascolo e di Emilio. Lo spazio e il tempo della solitudine della protagonista so-no così narrati dalla sua stessa voce in tono lirico-evocativo, e in tal modo il lettore può vivere dall’interno la sua situazione problematica, cogliendone tutte le sfumature di dolore. Quando invece Memi entra in un mondo popolato di mostri grotteschi, una voce narrante impersonale le sottrae progressivamente la parola per trasformarla in personaggio epico. Questo mutamento di prospettiva dal punto di vista soggettivo e personale a quello oggettivo e impersonale, peraltro, è assai significativamente prefigurato all’interno del testo stesso, allorché Memi comprende che il rimanere a “Gela” avrebbe comportato per lei una perdita della sua individualità, un sequestro della sua persona da parte del “Coro”: "Se ci fossi rimasta a ****, da siciliana lo sapevo, dopo un giorno o un anno anch’io, per destino comune, mi sarei consegnata al coro, alla sua vera o finta sa-pienza. Coro io medesima o solo ostaggio di un Coro…" (p. 72).
In questa metafora del Coro, inteso come rapimento e oblìo del principium individuationis, risuona l’eco di una sapienza antica, quella dionisiaca, per cui venire al mondo con un io cosciente e un nome proprio è un “cancro” (p. 251), una stimmate di dolore ineluttabile. Ed è proprio su questo che si chiude il romanzo, che nelle ultime parole contiene l’ennesimo monito del Sileno – già variamente modulato da Sofocle a Leopardi, da Nietzsche a Cioran – sull’inconveniente di essere nati.


Autore : Marco Trainito

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