|
notizia del 09/04/2011 messa in rete alle 14:54:11
|
L'incantesimo della buffa, l’evocazione di un idillio
Il ritorno al romanzo di Silvana Grasso (nella foto) a sei anni da Disìo (Rizzoli 2005) – nel corso dei quali la scrittrice ha sperimentato l'autobiografia creativa con 7 uomini 7 (Flaccovio 2006) e il racconto breve con Pazza è la luna (Einaudi 2007), una raccolta di dieci storie da una delle quali è stata tratta la pièce teatrale Manca solo la domenica (portata in scena dall'attrice e regista Licia Maglietta) – costituisce un omaggio poetico e dolente alla Gela che fu teatro dello sbarco americano il 10 luglio 1943.
Celata sotto il velo trasparente e deformante del nome "Roccazzelle", con L'incantesimo della buffa (Marsilio, marzo 2011) Gela vede finalmente celebrato in un'opera letteraria di valore il momento più alto e drammatico della sua storia. Ed è significativo che il compito di raccontare in maniera lirico-narrativa un evento bellico carico di echi provenienti dall'epica omerica e dalla tragedia attica se lo sia assunto una scrittrice di spessore e imbevuta di cultura classica come Silvana Grasso.
Spalmando l'azione dalla fine di maggio del 1940 (vigilia dell'entrata in guerra dell'Italia) ai giorni di quella che è nota come "Battaglia di Gela", e tracciando così un arco di tempo che diventa solido architrave storico per sorreggere l'edificio aereo della fantasia letteraria, Silvana Grasso si affida alla sua lingua lussureggiante e barocca per trasformare in narrazione una trama esilissima, quasi evanescente, di fatti romanzeschi. È difficile, infatti, immaginare in quel contesto storico qualcosa di romanzescamente più insignificante dei pochi fatti relativi ai protagonisti del romanzo (fondamentalmente un becchino di Monterosso dichiarato inabile al servizio militare per sindrome paranoico-schizofrenica e prigioniero di fantasie pseudo-filosofiche, un orfanello del luogo in preda ad astratti ed eroici furori e un'orfana cieca e di buona famiglia venuta dal nord), eppure Silvana Grasso riesce a riscattare la povertà delle cose con l'esuberanza delle parole, nella convinzione tipica dei letterati puri e dei filosofi post-moderni che la virtù creatrice della lingua poetica basti da sola a dipingere un mondo di senso autosufficiente e compiuto.
Ecco perché questo romanzo, che nel titolo allude a una diceria popolare secondo cui la femmina del rospo, se guardata negli occhi, è in grado di provocare un incantesimo bloccando la crescita del malcapitato, dà l'impressione di essere costruito come un retablo. La voce narrante spennella con mano ora forte ora leggera, ora truculenta ora bucolica, ora apocalittica ora idilliaca, e sullo sfondo di un paesaggio dipinto, anzi scolpito, con un lessico espressionistico e con un periodare spasmodico, ritaglia dei quadri spesso isolati e dalla forte carica simbolica: la giovane morta vestita da sposa dalla madre per una macabra foto ricordo; il flashback sul piccolo seminarista Giacomino, vittima di abusi sessuali da parte del vecchio padre gesuita, che si suicida lanciandosi come un colombo dalla torre campanaria; il tenero idillio da ragazzini tra Gesù, orfano di madre e con un padre scappato in Australia, e Tea, figlia "aniride" di un gerarca del nord e di una madre austriaca musicista morta suicida, con la viola d'amore della madre stretta sempre al petto; il quadro macabro e cristologico del becchino impazzito Agostino che stringe al petto un giovane militare tedesco morto, scambiandolo, a causa delle sue allucinazioni intermittenti che scaturiscono da un antico senso di colpa, per il suo amico d'infanzia Giacomino, il cui suicidio, di cui era stato indirettamente responsabile, ora vorrebbe evitare portandolo via con sé in una folle fuga. A far da contorno, alcuni ritratti di personaggi a volte ben riusciti, come quello del vile e inetto podestà Agnello e quello del cinico e infame vicepodestà Bellassai, il quale usa il servizio di sepoltura pubblica dei poveri per arricchirsi e crearsi delle clientele con l'assegnazione delle bare, dando quelle buone agli "amici" e quelle misere ai poveracci. A far da palcoscenico, la città di Roccazzelle, con la sua umanità degradata dalla guerra eppure viva e non di rado dignitosa, con il suo paesaggio costiero e agreste la cui bellezza ellenica e straziante sta per essere stravolta dall'ecpirosi dello sbarco alleato, con i suoi profumi intensi e agrodolci di mare, di terra e di vegetazione che coinvolgono persino gli astri e riempiono il cielo meridiano.
Per realizzare questi dipinti linguistici, Silvana Grasso dissoda la lingua, scava nel dialetto italianizzandolo, ridà vita alle sonorità delle lingue morte e incorpora nel tessuto del testo, senza soluzione di continuità, persino qualche brandello celebre della poesia, assorbendolo e facendolo suo. Per illustrare quest'ultimo meccanismo costruttivo basteranno due esempi. Laddove si dice che «d'eterno c'è solo la fragilità dell'uomo, sogno d'un'ombra, la sua ruina» (p. 27), è evidente il recupero della memorabile definizione pindarica dell'uomo (Pitiche, VIII, v. 95 secondo l'edizione BUR 2008), la stessa che Alfieri usò come epigrafe per la sua Vita e che Leopardi evocò in francese per interposta persona nella pagina 2672 dello Zibaldone. Quando poi si legge che «Agostino sentì nel silenzio la carrucola del pozzo, dalla parte della stalla, di sicuro il frate prendeva acqua per lavare le scale. Magari guardava nel pozzo la sua immagine, più vecchia di anno in anno, irriconoscibile, un viso arrabbiato incarognito che il tremolìo dell'acqua, scossa dal catino, graziava per qualche minuto, il tempo che l'acqua tornasse cheta e spietata» (p. 59), non si può non notare come tutto il passo sia scritto sul palinsesto appena raschiato di una delle più famose poesie di Ossi di seppia di Montale: «Cigola la carrucola del pozzo/ l'acqua sale alla luce e vi si fonde./ Trema un ricordo nel ricolmo secchio,/ nel puro cerchio un'immagine ride./ Accosto il volto a evanescenti labbri:/ si deforma il passato, si fa vecchio,/ appartiene ad un altro.../ Ah che già stride/ la ruota, ti ridona all'atro fondo,/ visione, una distanza ci divide».
L'incantesimo della buffa, così, si offre al lettore paziente come "l'evocazione d'un idillio, quasi un'allucinazione" (p. 146), sullo sfondo tragico e paradossale della guerra e dei bombardamenti liberatori, in un quadro dai colori fortemente e volutamente contrastanti e contraddittori che mirano a illustrare una precisa concezione della vita, secondo la quale «la bellezza cresce spesso tra la feccia, la virtù confina con la fogna, l'onore col delitto» (p. 145).
Autore : Marco Trainito
» Altri articoli di Marco Trainito
|
|
|
In Edicola |
|
Cerca |
Cerca le notizie nel nostro archivio. |
|
|
|
|