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notizia del 09/04/2011 messa in rete alle 14:18:00
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Scrittori con il vizietto del parlar male di Gela
Nella sua conferenza dal titolo "Parlare male di Gela. Un'antologia", tenutasi il 5 aprile scorso al Tropico Med nell'ambito del ciclo di incontri Cunta organizzato dall'associazione «Daterreinmezzoalmare», Marco Trainito (nella foto)ha proposto una scelta di testi di grandi autori siciliani (e non solo) da cui emerge un'immagine decisamente negativa della nostra città.
Lo scrittore gelese ha precisato che gli autori scelti – Elio Vittorini, E. M. Cioran, Stefano D'Arrigo, Gesualdo Bufalino, Giorgio Bocca e Vincenzo Consolo, Silvana Grasso – sono legati tra loro in vario modo, ma ciò che li accomuna è la condivisione di uno schema interpretativo di matrice dantesca, più o meno esplicito, secondo cui Gela rappresenta il fondo dell'inferno, la summa di tutti i mali dell'Italia.
Nel suo romanzo breve La garibaldina (1950), che si svolge in gran parte in una notte di giugno del 1914, Elio Vittorini racconta l'avvicinamento in treno da Ragusa all'allora Terranova come una vera e propria discesa agli inferi, segnalata dalla presenza della malaria a partire dal fiume Dirillo.
L'arrivo a Terranova della vecchia Garibaldina Leonilde e del giovane bersagliere Innocenzo coincide con l'approdo a una terra desolata in preda alla malaria, in cui vive un popolo di miserabili ridotti a uno stato di tale abiezione che la loro vita si svolge tra una passiva sottomissione ai latifondisti e una vendetta rancorosa affidata prevalentemente al cicaleccio pettegolo notturno che risuona da un balcone all'altro del corso.
Capitato per caso a Gela nell'agosto del 1963, mentre era diretto ad Agrigento, il grande filosofo Cioran annotò nel diario di essersi ritrovato nella città più orribile che avesse mai visto, al punto che l'idea stessa di passarvi la notte gli sembrava inconcepibile.
Nelle due menzioni di Gela che si trovano nel grande romanzo Horcynus Orca (1975) di D’Arrigo, di cui Marco Trainito è uno studioso (il suo Il codice D’Arrigo, Anordest 2010, ha ricevuto il plauso di Walter Pedullà, prestigioso critico letterario e massimo esperto di D’Arrigo), appare chiaro che il tratto di mare del Canale di Sicilia, delimitato da Biserta, Pantelleria, Malta e Gela, è considerato come un luogo ancora più pestilenziale e infernale dello Stretto, in cui staziona la smisurata, morente e puzzolente Orca (simbolo della catastrofe della seconda guerra mondiale), al punto che i demoni marini provenienti dal Canale, i più "tinti" e feroci di tutti, andranno a dare il colpo di grazia alla stessa Morte rappresentata dall'Orca.
In un suo breve pezzo su Gela apparso su "L'espresso" il 16 maggio del 1982, poi incluso nella raccolta La luce e il lutto (Sellerio 1988), Bufalino, dopo aver ricordato il detto maligno "Cielo senza uccelli, mare senza pesci, uomini senza parola, donne senza onore", inventato dai gelesi stessi per furia autopunitiva, vede la città come un inferno (il petrolchimico), un purgatorio (l'umanità in pena che abita in un ambiente malsano e degradato) e un minuscolo paradiso assediato (le mura di Caposoprano).
Il paragrafo su Gela di “Inferno. Profondo Sud”, male oscuro (1992) di Bocca, un’inchiesta giornalistica cruda e senza sconti che il grande giornalista dedicò a Falcone e Borsellino, uccisi mentre il libro era stato appena ultimato, si intitola significativamente “Il fondo dell’Inferno”, e la nostra città vi è rappresentata come la sintesi di tutto il degrado di un meridione d’Italia governato totalitariamente dalle mafie (né Bocca dimentica di riportare in apertura il detto maligno sui gelesi già citato da Bufalino).
Nel decimo capitolo del suo L'olivo e l'olivastro (1994), un viaggio in Sicilia di un Ulisse-narratore che ritrova una terra irrimediabilmente dominata dai Proci, Consolo chiede aiuto addirittura ai primi versi del canto XXXII dell'Inferno al fine di trovare le parole adatte per descrivere Gela, che ai suoi occhi appare come il "triste buco", il "pozzo scuro" su cui "gravita ogni cerchio dell'infernale Italia".
Marco Trainito ha voluto concludere la sua scioccante antologia con una nota di speranza facendo riferimento all’ultimo romanzo della scrittrice gelese Silvana Grasso, L’incantesimo della buffa, appena pubblicato per i tipi Marsilio di Venezia: dopo una serie di opere in cui Gela è teatro di storie tutt’altro che tenere con l’antropologia stessa dei gelesi, Silvana Grasso sembra lanciare un messaggio positivo raccontando un idillio poetico e luminoso tra due ragazzini orfani, Gesù e Tea, sullo sfondo tragico e apocalittico dei giorni dello sbarco alleato a Gela durante il secondo conflitto mondiale.
Dopo la rigorosa e brillante esposizione di Marco Trainito si è svolto un dibattito, con interventi del pubblico, che ha sottolineato principalmente la necessità dell’apertura socio-culturale di cui Gela ha bisogno e le potenzialità che la nostra città non riesce ancora ad esprimere. Alla fine, se ci chiediamo perché nel corso di mezzo secolo importanti autori hanno parlato male di Gela, non riusciamo a dare una risposta senza rischiare di banalizzare e cadere in categorie interpretative vagamente sociologiche. Si potrebbe dire che lo scrittore cerca di colpire il lettore con immagine forti, ma allo stesso tempo esprime sensazioni, emozioni e sentimenti che raccoglie nei luoghi che visita e poi racconta. Per questo credo che risponda al vero, oggi come un secolo fa, l’immagine del cicaleccio pettegolo espresso da Elio Vittorini ne La garibaldina. La Gela del 1914, dove ha vissuto da ragazzino lo scrittore siracusano, è la stessa città che negli anni ottanta contestò un premio letterario a Gesualdo Bufalino (quell’edizione venne poi annullata per altri motivi) solo perché, nel 1982, aveva osato parlare male di Gela nel citato articolo uscito su “L’espresso”. Una città culturalmente gretta: questa è stata Gela fino ad ora. Ne sono testimonianza l’ostracismo che da anni vive Silvana Grasso, personaggio spigoloso e complesso, ma scrittrice apprezzata e studiata anche all’estero; l’indifferenza verso Marco Trainito che ha scritto un saggio su Andrea Camilleri (Andrea Camilleri, ritratto dello scrittore, Editing edizioni 2008) di cui il famoso scrittore agrigentino dice essere “il miglior libro che sia stato scritto su di me”. Tutto ciò rappresenta un atteggiamento culturale della città. Per questo diventa fondamentale il ruolo dell’intellettuale, il quale non deve necessariamente “fare politica”, ma alla politica deve “puntare la pistola alle tempie”, come dice il filosofo francese Bernard Enry Levy. Per Gela, la sfida è difficile e avvincente, ma prima o poi la potrà vincere. Nell’attesa, si consiglia al nosindaco Fasulo di sollecitare i numerosi aspiranti assessori a partecipare ai vari appuntamenti culturali previsti in città. Affinché comincino a comprendere che è meglio imparare a pensare (ovviamente al bene comune) piuttosto che aspirare ad una (s)comoda poltrona
Autore : Emanuele Antonuzzo
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