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notizia del 19/06/2011 messa in rete alle 19:04:03
Referendum/2: Un segnale di discontinuità
Gli esiti dei referendum hanno confermato che è in atto un fenomeno di discontinuità realmente rivoluzionaria. Tutti sapevano che il superamento del quorum era un evento difficile e sfidante. E tutti sapevano che solo un’azione mediatica massiva avrebbe potuto assicurare tale quorum. Infatti il partito del “no” ha optato per una scientifica elusione dell’informazione sui temi oggetto di voto. Arricchita da non velati inviti a godere delle belle giornate di fine settimana, fatti persino da personaggi istituzionali del governo.
I canoni tradizionali della politica indicavano che, pilotando i media tradizionali, la speranza di invalidare i referendum era confortante. E così hanno agito. Ma qualcosa ha preso un percorso inaspettato.
I social network, il passaparola virtuale e tutto ciò che, informaticamente, connette i pareri e le opinioni degli italiani hanno cominciato a piegare i comportamenti e a organizzarli, a tradurre una questione di merito in una questione di etica civile. Insomma la comunicazione bidirezionale e broadcast di internet ha sopravanzato la comunicazione monodirezionale delle Tv padronali e di partito, facendo superare la soglia del quorum con tutti i retrosignificati che essa oggi veicola.
Una rivoluzione bella e buona che sfugge al possesso privatistico dei media e che viaggia con una capillarità e una pervasività mai viste prima.
D’altra parte questa è la conferma italiana a ciò che mesi prima avevamo visto in Tunisia, in Egitto e poi nei paesi del nord Africa fino al Medio Oriente e alla Penisola Araba. Insomma sta emergendo il segno distintivo del terzo millennio. Un millennio che forse vedrà una passaggio del testimone dalla forma democratica classica ad una forma di “sociocrazia” partecipata con i mezzi della comunicazione virtuale. Ovviamente la forma partito che organizza le competenze per il governo delle città e degli stati rimane, ma la veicolazione del consenso non è più patrimonio incontrastato della forma partito politico, il consenso si forma nell’interazione varia e animata dei social network che ormai attingono contestualmente a tutte le informazioni che man mano si generano nel pianeta. Non è il caso di dilungarsi su tale analisi ma la percezione di un cambiamento epocale è netta e ne leggeremo i tratti nel corso dei prossimi eventi.
C’è però un aspetto che riguarda Gela che, anche in questo referendum, si è distinta dalle altre cittadine. I commenti, prima delle votazioni, erano tutti orientati a valutare una partecipazione dei gelesi su grandi numeri, non foss’altro perché i gelesi sono afflitti dal tema dell’acqua e lo sentono come il tema cardine, ne parlano e ne discutono animatamente, chiedono e pretendono servizi e costi adeguati. Ed invece, ad urne chiuse, si scopre che Gela è la città con la più bassa affluenza alle urne (43,30%), seconda solo a Niscemi (40,49%). In testa Mazzarino con un’affluenza pari al 66,73%. Sutera con il 65,82%, Montedoro (61,56%). Mussomeli si attesta sul 59,63%. Seguono Vallelunga Pratameno (58,68%), Serradifalco (58,49%), Bompensiere (58,19%), Butera (57,68%), Milena (57,25%) e San Cataldo (57,10%). Con un’affluenza del 53,62% Campofranco, poi Resuttano (53.08%), Santa Caterina (51,89%), Delia (51,58%), Sommatino (51,39%), Caltanissetta (51,35%) e Acquaviva Platani (50,11%). Sotto il 50% gli ultimi 5 comuni: Villalba (49,48%), Marianopoli (45,43%), Riesi (44,12%).
Insomma un risultato inaspettato e però reale.
Quale conclusione vogliamo trarne? Senza volere inveire si può formulare un’ipotesi comportamentale che ha certamente la prerogativa almeno della plausibilità, e lo dico per lasciare aperte eventuali altre tesi meno ingenerose. Perchè temo che questi numeri siano una conferma di uno stile di comportamento non lusinghiero che tra i gelesi ha attecchito.
Per descriverlo mi servirò di un esempio: se un cliente siede ad un tavolino di un ristorante si comporta in un modo ben determinato. Pretende di essere servito perché paga. Chiede cioè un servizio adeguato in funzione di ciò che è costretto a pagare. E tale cliente lo esige, giustamente. Ma in virtù di cosa lo esige? Il cliente seduto ad un tavolino di un ristorante esige il servizio in funzione del suo portafoglio, ossia di un requisito individuale, che può permettersi e che può far valere. Tutto legittimo, ma con la particolarità che ciò che si chiede è appunto una prerogativa individuale, da cliente.
Diversamente esiste un’altra forma nel richiedere i servizi, ed è quella di vestirsi da cittadino, di pensare che ciò che è un servizio di base, senza fronzoli o velleità è, di diritto, dovuto, a condizione che il servizio sia uno di quelli senza il quale la nostra esistenza non sia dignitosa. E questo è un modo di rivendicare che non è individuale ma collettivo, perché non dipende da una facoltà legata alla persona, ma da un presupposto di cittadinanza.
Bene, il gelese medio vede se stesso più vicino al primo approccio, al cliente che paga seduto ad un tavolino di un ristorante, cliente che può anche infischiarsene del proprio abito di cittadino perché, se paga, ha diritto alla prestazione. Sta qui la malattia del gelese medio: non sbaglia nel pretendere il servizio, sbaglia nell’atteggiamento con cui chiederlo.
Ecco perché quando gli viene data l’opportunità di incidere sulle leggi di questo paese, la sua partecipazione è condizionata, sorniona e flemmatica.
Ecco da cosa nasce il nostro 43,30%, nonostante la drammatica e permanente crisi idrica cittadina. C’è molto da cambiare in questa città di clienti che non si impegnano a diventare cittadini.
Autore : Sebastiano Abbenante
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