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notizia del 24/11/2013 messa in rete alle 15:29:45
OPINIONI/Il filo rosso della politica italiana
Oggi la politica italiana è divisa in tre terzi. Almeno lo è l’elettorato attivo, quello che decide di recarsi alle urne. Un terzo segue idolatricamente un imprenditore che vanta le sue gesta ad ogni occasione, un terzo vota un partito che cambia pelle ogni stagione come i serpenti, un terzo vota una schiera di anonimi rivoluzionari che, prima di decidere, sono costretti a leggere il verbo del loro blogger. Sembra un’Italia pazza che si rivolta contro se stessa senza esito. Più convinta nel distruggere che nel costruire. Arrabbiata più che combattiva, preconcetta più che convinta.
Sembrano fazioni distinte e, come le controparti che si fronteggiano, ognuna dovrebbe essere portatrice di una cultura autonoma. Invece l’inghippo sta proprio in questo: le culture autonome non ci sono proprio.
Tutte sono pervase, a vari gradi, da una medesima cultura. Per il semplice fatto che le culture non si inventano dall’oggi al domani. Ed è per questo che il sopravvento lo prende la cultura che ha avuto più tempo per sperimentarsi e diffondersi.
Per capire la cultura che ha preso il sopravvento basta analizzare le parole che ormai da più di una decina d’anni si masticano in politica: leadership, produttività, efficienza, budget (o nella sua variante: spending review), carisma, per poi passare ai termini finanziari/economici: spread (variante statale del margine operativo lordo), deficit, debito, etc.. Cosa hanno in comune questi termini? Da quale cultura provengono?
Prima di rispondere aggiungiamo un’altra riflessione. Nella suddivisione del mondo in stati nazionali cosa sta contrastando in dimensioni e organizzazione gli stati medesimi? Semplice. Le aziende multinazionali! Sono le uniche ad avere le tre caratteristiche che sono tipiche della razza umana, dominante su tutte le forme di vita terrestri.
Hanno un istinto di sopravvivenza, hanno un linguaggio, hanno una considerazione di sé di tipo esaltativo. Le aziende multinazionali sanno che la loro esistenza dipende dagli utili che ogni anno consuntivano. Senza di essi muoiono e questo è il loro istinto di sopravvivenza a cui rendono conto giornalmente. Hanno un linguaggio ed una liturgia che si può sentire negli incontri aziendali, nelle comunicazioni al pubblico, nelle tecniche con cui si motivano le maestranze: un linguaggio aziendalista. In ultimo hanno di sé una considerazione esaltativa basata sul miglioramento continuo e sulla competitività infinita. Il loro logo riassume tutta la considerazione che hanno del proprio operare. Queste aziende sono come gli stati nazionali: hanno un welfare per i dipendenti suddiviso per fasce lavorative, hanno un codice etico, ossia una costituzione interna come per gli stati nazionali, hanno una magistratura interna rappresentata dagli uffici del personale, hanno un security come gli stati hanno gli eserciti, hanno una reputazione che fa le veci del patriottismo nazionale, insomma una forma di cittadinanza che si esplica dentro l’azienda e a cui corrispondono le stesse forme organizzative di uno stato-nazione. La loro organizzazione ha generato una cultura, una cultura aziendale appunto.
Dalla discesa in campo dell’imprenditore di Arcore questo aziendalismo ha pervaso la politica italiana in modo violento. Ma anche le politiche di austerity filo germaniche hanno contribuito alla diffusione di una cultura economico/aziendalista, tanto da intaccare le costituzioni con il pareggio di bilancio.
Oggi la politica italiana vive del linguaggio delle aziende.
Un’altra controprova di ciò è l’uso del singolare nei termini cardini della loro cultura: la produttività, la leadership, il carisma, l’efficienza. Sinonimo di un modo univoco di concepire tali concetti. Mai la cultura aziendale oserebbe declinarli al plurale: le produttività, le leadership, i carismi, le efficienze, significherebbe ammettere che non possa esserci un solo consiglio di amministrazione che decide la sola e unica forma con cui si produce e si crea valore.
Ecco, la politica italiana si è cibata della cultura aziendale, l’ha usata a piene mani per dare l’impressione di evolversi, di allontanarsi dall’immagine immobile e polverosa di un’Italia burocratica e cristallizzata.
Il berlusconismo l’ha utilizzata a piene mani con piena consapevolezza, il Pd, con Renzi (nella foto in alto con Berlusconi) ha aperto le porte a tale cultura giustificandola con il volere “amministrare” l’Italia come se fosse una città, i populisti stellati vogliono fare la loro rivoluzione anonima facendo i conti in tasca a tutti gli italiani, politici in primo piano, come se fossero i contabili di un’azienda, dimenticandosi dei processi sociali che innervano l’Italia.
Tutti si sono abbeverati al fiume della cultura aziendale. Un’ultima precisazione: la cultura aziendale non è necessariamente una cultura industriale. Tra le due accezioni vi è la stessa differenza che passa tra il piatto ed una pietanza. La prima serve a contenere una cosa utile all’alimentazione, la seconda alimenta.
Ecco qual è la cultura che abbiamo saputo usare nella politica italiana. Una cultura nata nei recinti delle aziende e utile per logiche perimetrate dedite agli utili annuali e regolate dalle leggi dello stato-nazione ospitante. In Italia abbiamo scambiato la cultura dei plurali, tipica della politica, con la cultura del singolare, la cultura delle idee con la cultura del consuntivo annuale. Abbiamo cioè pensato che essere aziendalmente efficienti possa farci uscire dalla crisi profonda in cui siamo caduti. Peccato che la cultura aziendale crea utili per gli azionisti e non utilità per i cittadini. A meno che non si ricorra all’ormai collaudato ricatto che il lavoro è già tutto quello che un cittadino del 3° millennio possa desiderare!
Autore : Sebastiano Abbenante
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