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notizia del 04/05/2008 messa in rete alle 15:11:29
Bipartitismo tra partitocrazia e riforme
Quando l’informazione ufficiale è solo di facciata, generalista, faziosa a seconda di chi apre il portafoglio, abbandonandosi spesso al puro sensazionalismo qualunquista, non dobbiamo meravigliarci se un esaltato comico milionario come Grillo riempia le piazze con la sua satira populista. Altrimenti non si capisce perchè mai l’informazione debba far passare il messaggio secondo cui eravamo già in una «Seconda Repubblica» sol perchè c’era un falso bipolarismo per poi passare ad una presunta «Terza Repubblica» sol perchè si delineano i tratti del bipartitismo dopo il responso elettorale, mentre, invece, «a Costituzione invariata» siamo ancora in piena «Prima Repubblica». La forma di governo è ancora parlamentare, nel senso più ferreo del termine; il Presidente del Consiglio è ancora prigionero del Parlamento e del suo “anacronistico” bicameralismo perfetto; la striminzita democrazia diretta continua ad aggrapparsi ad un referendum che, pur nonostante un altissimo quorum, è solo abrogativo, ovvero confermativo in caso di legge costituzionale (ma solo alternativamente all’incapacità parlamentare di esprimere una maggioranza qualificata) e via discorrendo: insomma, a bocce ferme, siamo ancora a 60 anni fa. Con una novità sostanziale, è vero: una novità che è, anzitutto, una speranza. Queste elezioni hanno registrato la nascita di un bipartitismo che se consolidato da una nuova legge elettorale (sempre se si vuole evitare il referendum già in programma il prossimo anno) può decretare, davvero, la fine della partitocrazia e cioè la principale zavorra che non ha permesso all’Italia di mettere mano alla Costituzione e passare, finalmente, ad una Seconda Repubblica. Partitocrazia ha significato tante facce note con manie di protagonismo da gossip, tradottesi il più delle volte in pratiche trasformistiche da voltagabbana, per elevati costi della politica ed un «Non Decisionismo» prevalso come regola (anzichè eccezione). Trattasi, invero, di un bipartitismo agli albori, con tanto di “forzatura oligarchica”: giacchè un bipartitismo non si fa certo con le liste bloccate, nè con l'assenza in campagna elettorale di temi (laicità, immigrazione, politica estera, le grandi opere pubbliche, ecc. ecc.) che potevano consentire all’elettore di dividersi. Purtuttavia, c’è una volonta che si reitera da quasi un ventennio, risalente ai quesiti referendari d’inizio anni ’90, allorquando gli italiani si espressero, chiaramente, contro il multipartitismo esasperato: è questo, a mio avviso, il dato inconfutabile. Così come lo è, da ben quindici anni, la presenza in campo di fortissime «leadership a vocazione governativa», riunitesi in “comitive coalizionali” solo per il periodo elettorale, che hanno celato la crisi irreversibile dei partiti di massa ideologici, giunti inesorabilmente al capolinea. L'elettorato ha sepolto la sinistra massimalista; ha decisamente detto no ad una riesumazione dell’estrema destra; ha mortificato il “nuovo centrismo” dell'Udc, che pur richiamandosi in qualche modo ai valori del cattolicesimo, è ben altra cosa; ha “provvisoriamente” premiato le liste pulite di Di Pietro suggerite dagli amici Grillo e Travaglio, nonchè il regionalismo sotto mentite spoglie di Lega Nord e MpA. Ma soprattutto ed inevitabilmente, un elettorato messo alle strette da una strategia condivisa dai due principali attori ha delegato Berlusconi a governare e Veltroni ad incalzare il primo sulle riforme, in “religiosa” attesa che si materializzi una speranza ancora viva: l’alternativa alla cattiva politica non può essere l’anti-politica, ma la buona politica.
Autore : Filippo Guzzardi
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