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notizia del 01/10/2007 messa in rete alle 09:53:49
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Il fronte del porto
Seguire da lontano il dibattito locale intorno al destino del porto di Gela non è facile. Per questo avevo rinunciato dopo un primo tentativo su questo stesso giornale. Poi mi è ritornata la curiosità, sull’onda del mio interesse verso le vicende del conterraneo Ammiraglio Maugeri e la logistica dello sbarco degli americani a Gela. Inoltre, mi hanno attratto le vicende, a cavallo tra informatica e spionaggio, in cui giocava un ruolo importante anche Alan Turing, padre del computer, morto suicida all'età di quarantadue anni nel 1954: anno in cui uscì nelle sale il film di Elia Kazan, Il fronte del porto, con Marlon Brando e Rod Steiger.
Su Turing lasciatemi qui solo dire che la sua breve vita fu a dir poco pazzesca: tra le due guerre mondiali fu colui che riuscì a decodificare il codice di trasmissione tedesco (Enigma). Poi tentò inutilmente di dare all'Inghilterra un altro vantaggio, con la costruzione di un cervello elettronico universale, inventando quella che oggi si chiama macchina di Turing. Per questo e altro fu decorato con l'Ordine dell'Impero Britannico, fu membro autorevole della Royal Society, e infine, processato per atti osceni in quanto omosessuale, fu condannato a cure ormonali che lo resero impotente e gli fecero crescere il seno. Si uccise dopo aver mangiato come Biancaneve (!), una mela intinta nel cianuro. Pare che la Apple morsicata, il noto marchio dei PC, si riferisce proprio a quella che avvelenò Turing.
Sul fronte del porto di Gela ci sono ritornato anche grazie alla lettura del libro di Marc Levinson, The Box 1, in cui è spiegata la globalizzazione, tramite la storia avvincente del container. Il cui padre è Malcom McLean, proprietario di una flotta di camion, per evitare gli ingorghi che paralizzavano la costa orientale degli Stati Uniti, nel 1956 decise di sperimentare una forma innovativa di trasporto via mare. Caricò scatole di alluminio grandi quanto il rimorchio di un tir, facendole salpare da Newark alla volta di Houston, dove le attendevano 58 camion per portarle a destinazione. Insomma, gettò il seme della logistica intermodale.
McLean dedicò il resto della vita a diffondere l’idea del container, vincendo le resistenze di potenti lobby, costruendo prima e distruggendo poi una fortuna (le McLean Industries fallirono nel 1986 con 1,2 miliardi di dollari di debiti). Negli anni ’90, grazie al container, anche Barbie, il simbolo dell’America, perse la sua cittadinanza: oggi, operai cinesi fabbricano Barbie con stampi statunitensi e macchinari giapponesi ed europei; i lunghi capelli di nylon sono giapponesi, la plastica usata per modellare il suo corpo è prodotta a Taiwan, i pigmenti in America e gli abiti in Cina Poi con gli stessi container sono arrivate le Polly pocket e ci siamo definitivamente rovinati per regalarle alle nostre bambine.
La gran parte degli oltre 300 milioni di container che solcano i mari non contiene, infatti, prodotti finiti, ma semilavorati e solo l’economicità del loro trasporto consente alle grandi multinazionali di scegliere dove trasferire ogni fase della lavorazione e l’assembramento finale. Come consumatori ne traiamo molti vantaggi; come lavoratori corriamo molti più rischi. Il container ha spezzato il fronte del porto: non esistono più scaricatori come Terry Malloy, alias Marlon Brando.
Una mega portacontainer oggi può trasportare alla velocità di 33 nodi oltre 100.000 tonnellate di merci con soli 20 uomini di equipaggio e fermarsi poche ore in un porto, per essere scaricata e ricaricata non da squadre di stivatori, ma da computer che comandano file di gru alte 60 metri e pesanti 900 tonnellate.
L’economia di porti come New York, Londra o Liverpool ne è stata devastata. Levinson racconta anche come si sia dimostrata decisiva, per l’affermazione del container, la sua adozione da parte delle forze armate americane durante la guerra del Vietnam. Sulla quale consiglio la lettura del voluminoso libro “L’ombra delle armi”2, in cui un giovane caporale coreano viene destinato al Dipartimento Investigativo di Da Nang, nel Vietnam del Sud, per vigilare sul mercato nero. Nel libro del coreano Hwang Sok-Yong, i dollari (e direi anche i container) sono la testa di ponte dell’ordine imperialista e la carta d’identità dell’America; sono un aiuto al diffondersi del suo potere militare e politico in tutto il mondo; sono il nutrimento del capitale americano e della sua rete di imprese multinazionali.
Il 2 gennaio 2004, esattamente cinquant’anni dopo il fronte del porto di Marlon Brando, un comitato di imprenditori marittimi di Gela ha costituito la ONLUS denominata “Associazione Interporto del Golfo di Gela” che ha come scopo lo sviluppo economico, turistico, commerciale e industriale del porto di Gela e del suo hinterland.
Nel frattempo, il progetto del nuovo porto rifugio di Gela ha ottenuto una valutazione di impatto ambientale positiva, che suggerisce di apportare una variante al progetto per evitare l’insabbiamento del porto. Senza questa modifica e se entro gennaio 2007 (sigh! È già passato!) il progetto non avrà completato l’iter autorizzativo, i finanziamenti del porto di Gela verranno stornati per altre opere portuali in Sicilia.
L’Associazione Interporto del Golfo ha lanciato da tempo l’Sos, anche su questo giornale, poiché si rischia di perdere una importante opportunità di sviluppo. Il sindaco Crocetta ha tranquillizzato gli animi garantendo che il finanziamento non si perderà, il progetto potrà essere modificato in tempo e poi subito si procederà alla gara. L’Associazione giustamente vigila sull’iter del progetto e lancia costantemente l’allarme: se non avremo un vero porto commerciale e turistico, perderemo i treni del 2010 (aggiungo anche del 2020 e del 2030). Gela e la provincia saranno tagliate fuori da tutti i grossi traffici economici mediterranei.
Se ho ben capito il progetto del porto potrebbe già contare su una copertura finanziaria iniziale per un importo complessivo di 67 milioni di euro. Ma con la variante richiesta il progetto è ritornato al Genio civile opere marittime e c’è chi teme possa insabbiarsi, come il porto rifugio.
Intanto nel porto di Gela operano i soliti servizi portuali erogati da una ristretta cerchia di imprese marittime, tramandate da padre in figlio, in barba a Bersani e al libero mercato. A dire degli stessi addetti ai lavori, pare che non esista concorrenza nel porto di Gela, esiste solamente un antico e rodato oligopolio.
Se anche a Gela ci fosse il libero mercato, potremmo forse vedere operare veri imprenditori come il pioniere dei container Malcom McLean e potremmo così assistere ad un incremento del traffico marittimo e quindi potremmo aspirare alla creazione di nuovi posti di lavoro, in un territorio in cui violenza, prevaricazione e privilegio si sentono ancora padroni.
Il punto di vista degli operatori locali per me va comunque rispettato e qui vorrei suggerire solo un po’ più di realismo e senso della misura. L’associazione interporto nell’annunciare la consegna gratuita alla città di Gela del progetto di massima dell'Interporto di Gela, ha diffuso sul suo sito un comunicato 3 in cui stima l’ammontare complessivo delle opere in duemilacinquecento milioni (dicasi 2.500.000.000) di euro e la creazione di circa 20.000 nuovi posti di lavoro.
Tale entità finanziaria, a mio giudizio, è fuori dalla grazia di dio e dalla portata di qualunque investimento possibile. Per capirlo, invito a leggere i calcoli degli investimenti impegnati nella trasformazione dei porti di Los Angeles, New York o Rotterdam, pubblicati nel libro citato di Marc Levinson. Se tali fossero le necessità finanziarie per il rilancio completo del porto di Gela, potremmo stare sicuri che la Cina continuerà a sbarcare container in altri porti Europei, senza attendere tali inauditi investimenti sul porto di Gela.
Attualmente, e presumibilmente anche in futuro, il mercato europeo dei container in sud Italia continuerà a passare attraverso i moli di Gioia Tauro (al 23° posto nella classifica mondiale) e di Napoli che nel suo terminal ospita il più grande armatore cinese, la Cosco, assieme alla svizzera MSC e alla Conateco, società partecipata al 50 per cento da Cosco e Msc. Tali imprese globali hanno ottenuto concessioni per 50 anni, per continuare ad investire nel porto campano che, connettendosi agli interporti circostanti, diventerà un colosso infrastrutturale nel sistema logistico del Mediterraneo.
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A questo punto, umilmente e senza particolari competenze in materia, credo che più realisticamente l’area di Gela potrebbe almeno candidarsi ad essere un polo logistico regionale, con qualche discreta proiezione internazionale e una maggiore complementarietà con i porti vicini della costa sud siciliana e soprattutto con Malta.
La Sicilia, la più grande e popolosa isola del Mediterraneo, non può continuare a disporre di un sistema portuale inadeguato rispetto ai suoi stessi bisogni attuali e alle potenzialità derivanti dal suo ruolo geo-economico, nel contesto delle nuove relazioni euro mediterranee.
Porti, ferrovie, aeroporti, rete viaria costituiscono seri problemi che in Sicilia si trascinano insoluti da un secolo all’altro. Nel frattempo, la competizione nei mercati è cresciuta, con l’aggravante che l’Isola è stata esclusa da quasi tutti i più innovativi programmi di sviluppo europei e nazionali.
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Tale realtà non va esorcizzata con progetti faraonici. Come il ponte sullo Stretto: su cui con la sola bibliografia si può già costruire un ponte di carta. Tutti sanno, compresi i più tenaci propugnatori, che non sarà alcuna mega opera e nemmeno il ponte, l’infrastruttura risolutiva delle gravissime carenze dei trasporti siciliani.
La Sicilia, salvo che nei porti petroliferi, non ha sviluppato alcuna specializzazione portuale innovativa e competitiva. Il traffico container, uno dei più appetibili, per gli stessi operatori siciliani che prima andavano a Genova e a La Spezia, oggi fa capo al porto di Gioia Tauro.
Onestamente, devo ammettere non ho trovato risposte al perché non sia possibile anche in Sicilia attrezzare un grande terminal intermodale. E non trovo ragioni sufficienti per negare questa opportunità a Gela che ha una piana di migliaia di ettari interamente attrezzabili e prospicienti il vasto mare. C’è riuscita perfino la piccola isola di Malta che, in pochi anni, ha realizzato un efficiente “freeport”, il terzo del mediterraneo (dopo Gioia Tauro e Algesiras in Spagna). So solo che il porto container di Malta è dotato di imprenditori globali, di attrezzature all’avanguardia e di tariffe molto competitive. E pure di fondali.
In Sicilia abbiamo tanti porti, ma non fanno sistema, e la maggioranza di essi vive stentatamente, scollegati dalle grandi direttrici della programmazione europea dei trasporti. Infatti, l’Istat nella graduatoria dei primi 40 porti italiani per traffico merci pone Palermo al 28° posto, Termini Imerese al 33°, Catania al 34°, Messina al 36°, Lipari al 38°. Dati avvilenti per tutta la marineria siciliana.
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Per quanto riguarda il traffico passeggeri la situazione è un po’ meno grave. Al primo posto figura il porto di Messina (seguito da Reggio Calabria), ma trattasi del traffico obbligato generato dai traghetti che attraversano lo Stretto. E con il ponte sparirebbe anche quello.
Seguono: Palermo al 16° posto, Milazzo al 17°, Lipari al 19°, Trapani al 25°.
Secondo i dati forniti dall’Autorità porto di Palermo, relativi al 2002, nei porti siciliani sono state movimentate (sbarchi ed imbarchi) merci per 89 mio/t, di cui 71,2 mio/t di prodotti petroliferi e derivati. Il primo porto petrolifero in Sicilia è quello di Augusta (4° in Italia) con 29.9 mio/t, al 97% “rinfusa liquida”, ovvero oli greggi, benzine e similari. Nella graduatoria figurano altri due importanti porti petroliferi siciliani: Milazzo al 11° posto con 15,2 mio/t e Gela al 17° posto con 7,4 mio/t.
La “vocazione” petrolifera imposta alla Sicilia è confermata da altri dati, contenuti nel “Quadrante economico siciliano-2003” del BdS, relativi all’interscambio della Sicilia con l’estero.
Insomma, così com’è, il sistema portuale siciliano è messo male e rischia di essere marginalizzato anche rispetto ai flussi di traffici che saranno generati dalla zona di libero scambio euro-mediterranea che si svolgeranno, prevalentemente, via mare.
Ad ogni modo, senza tentennamenti e ambiguità, credo che andrebbe sostenuto il lavoro degli operatori locali impegnati nel settore. Da qualche parte bisognerà pure avviare un serio programma di rilancio dell'economia marittima nel Golfo di Gela. Quantomeno con i seguenti pragmatici e realistici interventi: la rigenerazione del Porto Rifugio; la creazione di un Ente Porto del Golfo, magari in partnership con il porto di Licata e Scoglitti; la creazione dell'Ufficio principale di Dogana e dell’Ufficio principale di Sanità Marittima, l‘attivazione nell’intera area del golfo di un sistema interportuale di transhipment di container.
Anche se tali progetti non dovessero creare migliaia di posti di lavoro, possiamo concordare che ne creeranno almeno alcune centinaia? e con questi chiari di luna saranno poca cosa?
1) Marc Levinson, The Box. La scatola che ha cambiato il mondo (con prefazione di Federico Rampini), Egea, 2007
2) Hwang Sok-Yong, L'ombra delle armi, Baldini-Castoldi, 2007
3) 30 Maggio 2007. Gela: futura Rotterdam del Mediterraneo (www.interportogela.com/InternatiolNews/tabid/231/Default.aspx)
Autore : Giuseppe Clementino
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