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notizia del 14/11/2009 messa in rete alle 21:21:38
Lavoro e aziende stanno mutando?
La recente pubblicazione “INTROIBO” di Luciano Vullo, oltre che una piacevolissima esortazione ricca di emozioni svelate, è uno spunto per citare temi attualissimi, propri della modernità. E non poteva sfuggire a riferimenti attuali perché l’esortazione etica di Luciano Vullo ha radici lontane che trovano nell’attualità un rinnovato senso, ribadito e perorato. Un passaggio a pagina 56 stimola un argomento modernissimo e dirompente, allorquando il lavoro viene definito “una categoria storica” il contrario, di fatto, di “un valore assoluto, eterno, insopprimibile”.
Il coraggio e la lucidità nel dichiarare ciò non passa inosservato. La nostra stessa Repubblica è fondata sul lavoro, come la Costituzione prescrive. Dare un senso temporale al lavoro può infatti apparire un’eresia. Ma la realtà è spesso più eretica degli umani. Dire che il lavoro oggi esiste e regola la vita di tutti i cittadini, di fatto, non ci assicura che le generazioni successive saranno ancora basate sul lavoro, almeno come inteso o pensato oggi. L’idea stessa è scoraggiante e per sostenerla dobbiamo almeno tentare una proiezione verso tempi che possono toccare anche le generazioni future. Di certo se osserviamo con attenzione i tanti segnali non possiamo negare che una mutazione è in atto, non un semplice cambiamento. Mi sembra pertanto utile accendere una riflessione sul lavoro e simmetricamente sulle aziende di oggi, perché questo aiuta a comprendere, forse, il travaglio che il tema pone alla società di oggi, che assiste a crisi economiche sempre più difficili da comprendere e metabolizzare.
Il lavoro ha subito nei lustri recenti il fenomeno dell’esternalizzazione dei costi, voluto dalle aziende più concorrenziali e multinazionali, determinando un accentramento in azienda del coordinamento del fare di altri, assuntori facenti capo a ditte esterne. Nei casi più spinti si è assistito a casi di outsourcing ove venivano esternalizzati non solo i compiti ma anche gli obiettivi intermedi di business. Alla riduzione del personale diretto dell’azienda, che effettua tale esternalizzazione, segue a ruota un accentramento di commesse in società specializzate che, per fattori di scala, riescono ad effettuare tali servizi per più aziende, riducendo a loro volta il numero dei dipendenti dedicati a quel servizio. L’effetto generale è la riduzione dei posti di lavoro, a parità di business. Il lavoro viene così ottimizzato con il ricorso a fattori di scala. Inutile citare anche l’accoppiata con il fenomeno della migrazione del lavoro verso i continenti con forza lavoro a più basso costo.
Ma altri fattori, intrinseci all’occidente, stanno riducendo il lavoro a forme slegate dalla produzione. Di fatto la mutazione consiste nel passaggio da un “mercato della produzione” ad un “mercato della relazione”. Il prodotto diventa subalterno alla sua presentazione, il suo utilizzo diventa subalterno allo stile di vita. Le aziende non puntano più alla massima produzione ma viene coniato un nuovo obiettivo aziendale che, secondo un’accezione diffusa, è definito come “creazione del valore”. Creare valore è il nuovo paradigma industriale. Si può “creare valore” senza necessariamente aumentare la produzione, ma, ad esempio, agendo sulle relazioni e sulla comunicazione, unendo prodotti e servizi, influenzando l’ottimismo degli azionisti. L’azienda ha così nuovi obiettivi, anche se sono soggetti a maggiore variabilità di scenario. L’importante è cogliere il gap economico, ossia il valore creato. Il lavoro ne subisce un ridimensionamento, ad iniziare dal fatto che il “cosa si fà” diventa subalterno al “come si fa”. Oggi classificare i compiti di una mansione è diventato difficile anche per un’azienda che preferisce lasciare discrezionalità sui compiti e definisce invece il “come agire” perché è quest’ultimo che crea valore. Siamo nel mercato delle relazioni non più dei prodotti. Anche il concetto di industria viene superato. L’industria diventa azienda, ove la produzione (industriale appunto) converge verso la creazione di valore. Ancora di più. Quando la stessa azienda non persegue più un obiettivo immediato di utile (è l’esempio di agenzie che acquistano aziende per ristrutturarle, smembrarle e poi rivenderle) converge verso una forma di “impresa” che può avere anche connotati di virtualità.
E il lavoro? Si trasforma anch’esso, diventa intanto più raro, più basato sul come fare, sulla relazione, la comunicazione dei risultati, la percezione in una parola. E’ come se il lavoro diventasse una continua invenzione di risposte ad esigenze sempre più rapide, sempre più in evoluzione. Anche i percorsi di carriera subisco una nuova influenza. Le aziende puntano sulla responsabilità non sul compito. Interpretare le esigenze della catena gerarchica e proporre soluzioni diventa il perno del lavoro.
Un solo fenomeno, in controtendenza alla riduzione del lavoro, si sta manifestando in occidente. E’ quello che gli inglesi chiamano “overhead”. E’ lo sforzo, misurato in tempo-lavoro, che occorre dedicare alle attività produttive per assicurare il rispetto dei vincoli, delle prescrizioni e delle norme, che in occidente tendono a crescere. Ma questo fenomeno che, nei fatti dovrebbe assicurare nuovi presidi lavorativi, induce spesso le aziende a spostare i loro business verso i paesi con minori vincoli e regole e quindi di fatto anche questo fenomeno produce alla fine una diminuzione del lavoro.
Pare, come Luciano Vullo sostiene in INTROIBO, che il lavoro tenda proprio a scomparire partendo proprio dall’occidente. Certamente con un processo lento ma inarrestabile. Molti indicatori lo fanno credere. La nostra speranza invece resiste. Ovviamente. Non riusciremmo a immaginarci una società senza lavoro.
Eppure questa riflessione senz’altro incompleta, ma coerente, dovrebbe stimolare chi opera sui fenomeni del lavoro ad attribuirsi una visione più ampia. Una visione che non può più essere localistica e antimoderna. Molti politici, sindacalisti, amministratori forse non sanno che comunque debbono fare i conti con questo fenomeno, possibilmente cominciando a pensare a potenziali scenari ove l’equilibrio sociale venga garantito e supportato da nuove forme di convivenza e sostentamento.
E’ eretico parlare di ciò? Non credo. Forse è solo l’incontenibile speranza di ricercare nuove forme di lavoro che garantiscano un vivere degno.
Autore : Sebastiano Abbenante
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