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notizia del 06/05/2012 messa in rete alle 19:53:47
Ma ne vale più la pena?
L’analisi dei fatti e la cronistoria raccontata da Sebastiano Abbenante, nel cui merito non entro, sollecita una breve riflessione su quello che oggi, a più di cinquantanni dal suo insediamento, il petrolchimico rappresenta per la città e per il suo comprensorio.
La storia ci consegna una fabbrica obsoleta nelle tecnologie, salvo le parti rinnovate per stretta necessità. Una fabbrica che continua a vomitare veleni, a fronte di benefici ridotti a poco più – e solo questi – di un migliaio di stipendi. Un porto industriale a servizio esclusivo dell’ente petrolifero, terreni occupati che – se bonificati e restituiti all’agricoltura e ad altre economie – potrebbero assicurare al territorio risorse ben più consistenti e “pulite”. Quelle che oggi l’Eni non può garantire.
Per non parlare dello strisciante ricatto cui periodicamente è sottoposta la popolazione, che appena nove anni fa (2003) difese la fabbrica elevando barriccate e contestando la magistratura che voleva applicare le leggi che a qual tempo bandivano l’uso del pet-coke (scarto della raffinazione fatto passare per combustibile non inquinante), “legalizzato” in tutta fretta per decreto dal governo Berlusconi, sotto la pressione demago-populista e lobbista.
Gela accettò il compromesso sotto la minaccia non solo psicologica della chiusura dello stabilimento se non fosse stato permesso ai padroni del vapore di utilizzare quel carbone-scarto (“meglio morire di tumore che di fame”), senza il quale – si disse – non sarebbe stato possibile alimentare la centrale elettrica, motore della raffineria. Salvo poi a sapere che l’energia prodotta è stata ben superiore al fabbisogno interno, tant’è che il sovrappiù l’Eni lo ha venduto all’Enel ed oggi lo commercializza in proprio.
Tutto questo val bene un migliaio di posti di lavoro?
Autore : Rocco Cerro
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