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notizia del 06/05/2012 messa in rete alle 19:53:07
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Raffineria, le variabili della crisi
Non tutti hanno capito cosa sta accadendo alla raffineria di Gela. Alcuni forse si sforzano anche di non capire, perché tale condizione esime dall’assumere ogni responsabilità. Alcuni ancora cercano nella crisi dell’industria italiana opportunità sceniche. Insomma gli effetti della globalizzazione della produzione e la crisi dei consumi dei paesi della vecchia Europa hanno aggredito l’unico anello che Gela mantiene con i processi globali: la sua raffineria.
Quando accadono eventi di così vasta portata, come il fermo di intere linee produttive con ricadute occupazionali, anche se temporanee, i giudizi e i commenti a caldo sono, per la gran parte, un gioco delle parti. Lasciare che gli eventi si sviluppino diviene utile per approfondire cause e correlazioni, sempre che si sia interessati a capire.
Tenterò qualche approfondimento distinguendo, per titoli, le variabili in gioco.
Il 17 aprile Eni pubblica sul suo sito internet la notizia della fermata temporanea di 12 mesi di due linee di produzione della raffineria di Gela. La notizia viene ripresa dal Financial Times e dai quotidiani economici europei. E’ di fatto una comunicazione agli investitori mondiali del titolo Eni. Mesi prima la società di raffinazione svizzera Petroplus ha chiuso tre delle sue raffinerie e ha dimezzato il ritmo produttivo delle restanti due, avvicinandosi alla soglia del fallimento complessivo. La Tamoil chiude la raffineria di Cremona e la Total chiude la raffineria di Dunkerque. In sintesi le società del settore energia affrontano la crisi della raffinazione con politiche di ridimensionamento produttivo. Gli utili calano a picco per la contrazione delle vendite e il contemporaneo aumento del prezzo del greggio, una forbice che dura da più di due anni. In questo quadro ogni amministratore delegato delle compagnie petrolifere si trova a dichiarare agli investitori una strategia per affrontare le perdite economiche annuali della raffinazione. L’Ad di Eni, Paolo Scaroni, con la fermata temporanea delle due linee produttive di Gela, conferma agli investitori la strategia di Eni: non chiudere le raffinerie ma fermarle temporaneamente, con l’obiettivo di resistere alla crisi in attesa che altri chiudano e quindi cedano quote di mercato che facciano restringere la forbice tra le vendite dei prodotti finiti e il costo del greggio. Una strategia dolorosa ma conservativa.
LA TRATTATIVA – La notizia viene accolta dai lavoratori gelesi con sgomento anche se segnali di potenziali ripercussioni erano già presenti, ma l’entità temporale della fermata era sembrata consistente ed impattante. La trattativa inizia il 23 aprile a Roma alla presenza del management Eni e si percepisce subito che la multinazionale italiana ha fretta di dar seguito alle decisioni del proprio amministratore delegato, già rese note al mondo economico mondiale. Il sindacato territoriale, affiancato dal sindacato nazionale, termina l’incontro senza siglare alcun accordo. Nulla di strano, la tecnica delle trattative impone di sondare prima ove la controparte aziendale manifesta disponibilità e dove non prevede di trattare. La comune volontà di definire la criticità della questione induce le parti a continuare la trattativa il giorno successivo a Gela. Ed infatti dal primo pomeriggio inizia una trattativa estenuante fino a poco prima dell’alba del giorno dopo, con la presenza di molti lavoratori e di tutte le rappresentanze sindacali elette. Nella stessa mattina di quella giornata gli esponenti sindacali colgono le variabili su cui l’azienda non intende derogare e ne colgono anche le motivazioni. Appare chiaro che Scaroni ha bisogno di comunicare agli azionisti che l’Eni sta attuando una sua strategia sulla raffinazione e rinunciarvi o cedere avrebbe significato un calo di fiducia degli investitori sul titolo Eni che sarebbe stato recuperato con strategie ben più dure ed impattanti. I sindacati, abituati da anni di contrattazione a cogliere i segnali prioritari e le logiche di sopravvivenza delle aziende, capiscono che l’obiettivo da salvaguardare è un obiettivo di lungo periodo, ossia il rilancio della raffinazione e della sua competitività. Obiettivo che da solo può allontanare strategie ben più drastiche che altre società hanno di fatto attuato.
La trattativa si intensifica ed entra nel merito specifico con l’obiettivo di salvaguardare la comunicazione di Scaroni ma limitando impatti e richiedendo assicurazioni. L’esito della lunga nottata di trattativa è noto a tutti: 100 casse integrazioni in meno (400 invece di 500), una fermata temporanea di 12 mesi ma con una cassa integrazione di 9 e 10 mesi rispettivamente sulle due linee, il mantenimento in marcia dell’imbottigliamento Gpl, l’assicurazione su investimenti affidabilistici e la tutela economica totale dei cassintegrati. Tutti obiettivi che hanno attenuato la richiesta aziendale senza però smentire il messaggio agli azionisti che l’Ad dell’Eni aveva lanciato il 17 aprile. Queste le motivazioni e le fasi dei due giorni che hanno scosso Gela. Un particolare non banale: il sindacato si è mosso anche per conseguire certezze in tempi limitati che, di questi tempi, non è un obiettivo da sottovalutare, basti pensare cosa oggi è capace di fare “questa politica” nel complicare e mantenere irrisolti i problemi di lavoro degli italiani, specialmente in Sicilia.
IL RUOLO DELLA POLITICA – La notizia è come un elettroshock per la politica locale. Non mancano le dichiarazioni di tutti i tipi e tutte sono accomunate da una commistione, in chiave localistica, di temi ambientali, rivendicativi, di rivalsa, di ricaduta sull’indotto, financo di contestazione del sindacato per essersi piegato ad un accordo con l’azienda. Una marmellata di dichiarazioni dalle quali la cittadinanza non ha capito nulla, ha tutt’al più incamerato rabbia e rivendicazioni. E come in ogni dramma non è mancato il condimento con paradossi quali voci di improvvisati acquirenti nigeriani della raffineria o accuse di bilanci falsificati, senza porsi neanche la remora di approfondire la modalità del “conto lavorazioni” che la raffineria di Gela pratica verso Eni. Ma tutto questo lo si dà per scontato, fa parte della legittima umoralità di un comprensorio e della ricerca di ruoli in situazioni eclatanti e alla ribalta. La politica sostanzialmente è apparsa disorientata, ma di un disorientamento pregiudizievole in quanto non ha indotto approfondimenti sui fatti ma solo esternazione di posizioni e la classica ricerca del colpevole, senza capire che gli attori della modernità, più che gli uomini, sono i processi produttivi, sociali e collettivi.
In realtà un ruolo la politica potrebbe averlo, ed anche rilevante se si sapesse ben organizzare. Chiariamolo.
La raffineria di Gela è solo una realtà dell’Eni in Sicilia. L’Eni in Sicilia vanta la presenza di circa 200 pozzi petroliferi e varie licenze di esplorazione sul territorio interno ed off-shore siciliano. Vanta anche la presenza di servizi industriali funzionali alle società dell’Eni. Enimed, che opera nell’esplorazione e nella produzione dei pozzi petroliferi, ha chiuso un bilancio nel 2011 con un attivo di circa 200 milioni di euro ed un organico di circa 200 dipendenti. La raffineria di Gela ha chiuso il bilancio 2011 con una perdita di poco più di 200 milioni di euro con circa 1.200 dipendenti. Tutto ciò dovrebbe far riflettere. L’Eni in Sicilia ci vuole rimanere sia per la profittabilità della produzione di greggio sia per la sfruttabilità di giacimenti di metano nella costa siciliana, resi convenienti dall’andamento del mercato delle materie prime. Il canale di Sicilia inoltre è un’ottima opportunità di ricerca solo se la Regione Siciliana riuscisse ad avere una politica industriale più organizzata e regolamentata. La politica dovrebbe far leva su questi temi complessivi che vedono l’Eni impegnata con business profittevoli e business in perdita, stipulando accordi di ampia valenza e orizzontali rispetto ai suddetti business, in modo da salvaguardare le attività Eni nel loro complesso invece di distinguere con un perimetro asfissiante le aree di crisi da quelle in espansione. D’altra parte la raffinazione e l’estrazione del greggio hanno più di una sinergia e questo non sempre compare nei bilanci della società perché veicolato con i costi standard di mercato tra i prodotti e i servizi che le due divisioni si scambiano. La politica potrebbe chiudere accordi che concedano prerogative ai business profittevoli in cambio di vantaggi per i business temporaneamente non profittevoli. E questo la politica regionale lo può fare. Ma per come vanno le cose in Sicilia l’auspicio rischia di rimanere tale.
LA CULTURA OPERATIVA DELLA RAFFINERIA – Questo è un argomento per addetti ai lavori e purtuttavia ha un impatto rilevante sul modo in cui si lavora e si organizza il lavoro. La raffineria è figlia di decenni in cui l’approccio al lavoro ha avuto connotati “epici”. Il merito veniva filtrato con modalità assimilabili a quelle con cui l’esercito Acheo si preparava ad espugnare Troia. Agamennone si riteneva imbattibile perché tra le sue fila aveva eroi del calibro di Achille e Aiace Telamonio. Eroi temibili nel combattimento ma sottoposti ad una umoralità soggettiva che poteva condizionare l’esito della battaglia. Per decenni l’attaccamento del lavoratore alla raffineria è stato vissuto in termini di permanenza al lavoro, di disponibilità sulle attività più varie, di dedizione ostentata ed emergenziale. Un lavoro di stomaco più che di mente. Questa cultura è andata avanti per un ampio periodo e solo da pochi anni si è riscoperto un approccio meno soggettivo e più asettico, meno ostentato ma più pianificativo. Una cultura più simile ai paesi del nord Europa ove le fabbriche manufatturiere, alla fine della giornata di lavoro, staccano l’alimentazione elettrica agli impianti per far concentrare la produttività nelle ore effettive di lavoro e non negli straordinari. Una disciplina lavorativa che privilegia la pianificazione e la responsabilità. Una rivoluzione immateriale che ha la sua incidenza. Tutto questo significa abbattimento degli indicatori che rendono Gela un’anomalia circuitale sui parametri dell’assenteismo, dello straordinario e dell’affidabilità.
GLI SCENARI FUTURI – E’ l’argomento principe dei ragionamenti sul futuro della raffineria. E proprio in virtù degli scenari che Eni ha attuato scelte strategiche su Gela. L’accordo siglato dal sindacato unitario ha un presupposto inalienabile: la raffineria deve ripartire con un’affidabilità e dunque una competitività maggiore rispetto a quella con cui ha fermato. E’ questo che distingue la fermata temporanea di Gela dalla fermata della raffineria Eni di Venezia. E’ una scommessa aziendale e sindacale insieme, è una motivazione fondante dell’accordo controfirmato il 25 aprile. Eni si impegna inoltre a non chiudere nessuna raffineria fino al 2014, l’impegno è stato sottoscritto in un accordo sindacale nazionale del maggio 2011 con tutte le raffinerie Eni definendo un protocollo che è stato di base per l’accordo di Gela. Il 2014 è l’anno della verità perché è l’anno in cui si prevede una leggera uscita dalla crisi europea e si prevede almeno un pareggio di bilancio nella raffinazione. Sta in quell’anno la scommessa sulla competitività di Gela rispetto alle altre raffinerie. E tuttavia un perdurare della recessione attuale anche dopo il 2014 creerebbe ricadute ben maggiori sull’euro e sulla solidità della comunità europea per la quale ogni sforzo si sta facendo, anche se abusando con le dosi di austerità e di ridimensionamento dei bilanci nazionali. Gela con questo accordo ci scommette, ed accetta la sfida, difficile ma possibile. Lo scenario peggiore che scaturirebbe dal perdurare della recessione europea, anche dopo il 2014, potrebbe preludere ad un nuovo “business design” della raffinazione Eni che tenda a preparare una “bad company”, scorporando l’area del marketing (in moderato utile) dall’area della raffinazione, che potrebbe subire strategie di ridimensionamento. Di contro uno scenario moderatamente migliorato potrebbe invece consentire un rilancio della raffinazione anche alla luce di processi innovativi che uniscano le tecnologie per i biocarburanti con le tecnologie tradizionali. Il tutto accoppiato ad una crescita della sensibilità ambientale che ormai è il principale canale di dialogo con le comunità che stanno intorno al sito produttivo.
LE EQUAZIONI ERRATE – La realtà produttiva cambia ma le convinzioni molto meno. Esistono delle equazioni che vengono costantemente ripetute ma che hanno perso le implicanze che un tempo avevano ed in pochi se ne sono accorti. Citiamole. L’equazione: “maggior investimenti, maggior lavoro”, ha perso gran parte della sua veridicità. La specializzazione degli interventi, il procacciamento di tecnologie sempre più proprietarie, le modalità contrattuali del “chiavi in mano” e le automazioni spinte hanno ridimensionato questa equazione. L’indotto della raffineria vive ormai da anni questa implicanza. Gli investimenti continuano a mantenere ancora la capacità di essere un indicatore della volontà dell’azionista di puntare sul proprio installato industriale, ma non implicano sempre mobilitazioni consistenti di maestranze e soprattutto per tempi lunghi. In questo l’innovazione di prodotto e di processo riveste forse un ruolo più rassicurante sull’occupazione ma ovviamente nel medio-lungo periodo.
L’altra equazione che ha mutato implicanza è il mantenimento del lavoro ad ogni costo. L’esperienza italiana e la fragilità di molte aziende italiane stanno facendo capire che rivendicare posti di lavoro tout court non è più bastevole. Occorre rivendicare posti di lavoro e qualità del lavoro. Più banalmente risulta più vantaggioso per le comunità avere cento posti di lavoro potenzialmente stabili e robusti che trecento posti di lavoro che dovranno essere riverificati da lì a poco. La robustezza dei business diventa un requisito che le comunità cominciano a percepire e richiedere. Senza una relativa stabilità non si produce né pace sociale né consumi stabili.
Un’ultima equazione (ma ce ne sarebbero ancora altre) che va reimpostata è quella che possiamo definire “interpretazione localistica dei fatti”. E’ un tipico sport delle nostre parti. Eventi che nascono per cause generali e globali vengono ricondotti a motivazioni localistiche e comprensoriali. Certo, ogni ambiente ha le sue variabili, ma le decisioni rilevanti vengono assunte sulla base di variabili sempre più ampie e i processi che nascono sono quasi sempre la risposta a processi generali e sempre di più extranazionali. Sarebbe pertanto il caso di concentrarci di più su analisi di ampio respiro piuttosto che localistiche, ne beneficerebbe anche la politica che troverebbe spazi e idealità oggi sopite.
Un’ultimissima equazione la possiamo definire come “la riscoperta dei valori immateriali delle organizzazioni”. E’ un tema complesso di cui vale forse la pena dare un cenno. Oggi le organizzazioni produttive vincenti sono quelle che analizzano e disegnano i propri ruoli. Il lavoro professionale non è più un’epica, come quella decantata da Omero, ove alcuni soggetti fanno la storia ed altri la tramandano. Oggi il lavoro passa attraverso il disegno del business e delle organizzazioni, definendo ruoli, interazioni, obiettivi e responsabilità. Un approccio più teutonico e meno mediterraneo. Pianificare e non disperdere le azioni sono la vera ricchezza delle aziende. Ma oggi si assiste ancora al mito dell’eroe greco ed alla multifunzionalità dei ruoli (non polifunzionalità) con ricadute risolutive nell’immediato ma dirompenti nel lungo periodo. Tutto questo fa male alle organizzazioni ma, molto lentamente, se ne stanno rendendo conto.
LA CITTA’ – La città di Gela paga uno scotto: non aver saputo strutturarsi per interagire con una multinazionale dell’energia. Eppure l’economia di Gela e, si può dire, anche il suo bilancio comunale dipendono molto dal rapporto con tale realtà industriale. Qualche piccolo passo in avanti recentemente si è percepito attraverso il dibattito su chi è abilitato a tener rapporti con i rappresentanti dell’Eni. Un dibattito ancora in corso ma corretto nel merito. Manca però una seconda fase. La macchina comunale deve attrezzarsi per strutturare il rapporto sulle tematiche di igiene industriale, delle ricadute sanitarie e della gestione delle emergenze rilevanti, non escludendo collaborazioni e interazioni sociali. Questi temi devono essere affidati ad una piattaforma monitorabile e concordabile che oggi non esiste e che darebbe vantaggi a chi la attua e a chi la richiede. Su questo l’auspicio rimane aperto ed ancora incompiuto.
I SINDACATI – I sindacati unitari hanno vissuto un periodo, antecedente al recente accordo, variamente conflittuale con il management dell’azienda. La crisi generale ha favorito approcci thatcheriani del management non tanto sul piano sostanziale, quanto comunicativo e poiché la cultura operativa industriale si cambia se cambia il clima aziendale, ciò non ha favorito rapidi cambiamenti nella cultura operativa di raffineria. L’esito della recente crisi, scaturita nell’accordo del 25 aprile, ha dimostrato una tenuta sindacale al di fuori delle aspettative, una capacità di mobilitazione e di governo delle pulsioni delle maestranze che ha di fatto rafforzato l’autorevolezza del sindacato agli occhi del management Eni. Impensabile sarebbe stata l’ipotesi di una convergenza sul fermo temporaneo e parziale delle produzioni nel giro di pochi giorni dall’annuncio. Rispetto ai fatti analoghi della raffineria di Venezia, pur considerando l’incertezza maggiore della prima esperienza circuitale, l’esito di Gela ha avuto una compostezza ed una finalizzazione inimmaginabile. E non è stata una resa all’azienda, come alcuni vorrebbero figurativamente rappresentare. La dirigenza sindacale ha prima compreso la posta in gioco e ha poi attuato un piano comunicativo capillare e contestuale agli eventi, tale da mobilitare tutti i lavoratori su una prospettiva di lungo periodo: il rafforzamento del sito di Gela. Su questo le maestranze hanno dimostrato un’ampia capacità di responsabilizzazione, generalmente non riconosciuta ma tangibile. Da questi fatti il sindacato unitario esce rafforzato e tale forza la userà per vigilare sul rispetto degli accordi e sugli sforzi che l’azienda esprimerà, anche al di fuori degli accordi specifici, per rendere il sito competitivo e flessibile. Va però aggiunta una considerazione generale che può riscontrarsi anche a livello nazionale. Oggi la vera contrapposizione più che tra aziende e sindacati si ha, stranamente, tra questa politica e i sindacati e Gela non fa eccezione. Faccio notare che mi riferisco sempre alla locuzione “questa politica” perché “la politica” è arte troppo nobile per essere avversata, troppo importante per consegnare la cosa pubblica ad élite tecniche o presunte tali. “Questa politica” è invece qualcosa di altro, è lo smarrimento dei riferimenti della politica e della sua prerogativa di rappresentanza. Oggi i sindacati stanno sempre più diventando l’alternativa credibile alla rappresentatività dei cittadini perché ne vivono le tematiche del lavoro e della sussistenza, hanno un’organizzazione strutturata e realmente democratica, hanno metodi ed esperienza. Fattori che questa politica ha nel tempo perduto e svilito. Non è un caso che dichiarazioni di esponenti politici locali si sono spinte ad invocare le dimissioni della dirigenza sindacale locale firmataria dell’accordo. E’ il segno di questa contrapposizione latente ma in incremento. Che tale crisi di rapporto sia almeno di stimolo per ripensare il ruolo della rappresentatività dei cittadini oggi scarsamente tutelata e minacciata anche nella nostra vecchia Europa. Questi fatti potrebbero aprire forse un nuovo dialogo tra azienda Eni e Sindacati, meno sospettoso e prevenuto. Quando la crisi morde e minaccia diviene sempre più visibile quella catena che lega le caviglie dell’azienda, dei lavoratori e dei sindacati. Ed è bene ricordarsene in questi momenti.
Un’ultima considerazione: la città di Gela continuerà ad interrogarsi sul futuro della propria raffineria e del lavoro diretto ed indotto e lo farà come lo sa fare, ossia con tutti i condizionamenti storici, comportamentali e contingenti che una comunità si porta dietro. Ma in questo processo infinito sarà decisiva la lucidità delle varie dirigenze locali: sindacali, politiche, aziendali, istituzionali, civili, ossia tutte quelle aree di governo che sapranno assumere responsabilità e decisioni nell’interesse di una pace sociale sostenibile. A queste dirigenze deve andare l’attenzione di tutti i cittadini distinguendo tra chi rischia assumendo responsabilità e chi “suggerisce o dà pareri” senza assumersi alcuna responsabilità. Almeno la conquista di questo distinguo potrà avvantaggiare l’ampia comunità siciliana che ruota attorno ai siti che producono, generando del lavoro buono perché solido e di lunga prospettiva.
Autore : Sebastiano Abbenante
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