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Corriere di Gela | Sviluppo, lavoro e cotillons
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notizia del 26/06/2011 messa in rete alle 18:10:00
Sviluppo, lavoro e cotillons

L’accostamento, nel titolo, non è affatto banale. Ma unire il tema dello sviluppo e del lavoro con un’antica danza francese risalente al XVIII secolo non è per irriverenza. L’accostamento è invece figlio di una constatazione che vede intrecciarsi temi fondanti della comunità gelese con il balletto ritmato e sempre ripetitivo che usa concetti e principi usurati e mai rinnovati. Mi riferisco ai principi ispiratori del dibattito sul lavoro e sullo sviluppo che, invece di essere manutenzionati e rinvigoriti dall’analisi della contemporaneità, sono riproposti e ripresentati sempre uguali a se stessi, anche quando si tenta di spiegare l’attuale o di trarne ispirazione per una rinnovata azione sul territorio.

Le recenti cronache hanno dato spazio al nuovo “Protocollo per lo sviluppo e la competitività e per un nuovo modello di relazioni industriali” che ENI ha proposto e condiviso, negli ultimi mesi, con le parti sindacali nazionali e che è giunto fino alla recente discussione assembleare con i lavoratori della raffineria per condividerne temi e ricadute. Partendo da tale evento, che è certo il segnale di una discontinuità, forse è bene interrogarci su cosa sta cambiando e perché. Quello che non bisogna fare in questa congiuntura lavorativa ed industriale è sottovalutare i segnali di novità e rinunciare ad interpretare i cambiamenti. Perché proprio dagli eventi attuali e dalle decisioni che verranno prese in questi anni, forse dipenderanno gli sviluppi industriali dei prossimi decenni e questo Gela non può considerarlo un elemento da trascurare.

Proviamo a partire dai giusti quesiti. Perché in una congiuntura nazionale e mondiale, di tipo non ciclico ma strutturale, le grandi aziende propongono nuovi protocolli e nuovi accordi sul lavoro? E perché la più grande azienda italiana del settore energetico punta su un protocollo per lo sviluppo e la competitività? Perché usare due parole magiche come sviluppo e competitività? Sviluppo di chi? E competitività verso chi? Domande impegnative ma irrinunciabili. Ed il sindacato come si attrezza per tale sfida? E la città di Gela, prima ancora di rivendicare ed entrare nel dibattito, che cosa ha compreso sulla discontinuità in corso? Una bella matassa da dipanare, ove però già alcuni disvelamenti possono essere tentati. Tentiamoci con umiltà, compagna preziosa per ben ponderare.

Negli ultimi due-tre anni nel panorama mondiale e nazionale è successo qualcosa che era noto anche prima ma non in dimensioni ciclopiche e pervasive: la produttività non misura più lo stato di salute di un’azienda. Quando il mercato aveva una sua accettabile stabilità, fino agli anni 2007-2008, la produttività bastava a individuare le aziende virtuose e vincenti. Gli esperti del settore sapevano che ben altri fattori andavano letti per classificare lo stato di salute di un’azienda, ma in generale se un’azienda produceva, già il giudizio era rassicurante.

Da qualche anno si assiste ad una produttività positiva accoppiata ad una profittabilità negativa. E’ il tipico caso della Fiat di Marchionne. Si possono produrre ampi volumi di auto ma non si riescono a vendere. Produttività positiva e perdita degli utili. Il paradosso è che più si produce più si perde, perché la produzione aumenta i costi che, in presenza di un mercato non ricettivo, fanno crollare gli utili. Appunto, produttività e profittabilità hanno divorziato ed ormai viaggiano così da parecchi anni.

Anche la raffinazione ha la stessa sindrome: surplus di capacità produttiva e perdite per i costi della produttività. Il corollario è immediato: la produttività non è più un acceleratore da spingere al massimo ma una leva da modulare, e la modulazione deve prevedere uno spettro ampio, anche la fermata degli impianti di produzione. Questa è la verità industriale degli ultimi anni. Cosa non da poco. Anzi una rivoluzione di pensiero, industriale ovviamente. Almeno fino a che tale congiuntura non sarà passata, il fine è quello di procacciare profittabilità riducendo i costi di produzione, anche drasticamente, ossia non necessariamente ottimizzandoli (cosa sempre perseguita nel passato) ma producendo di meno o nulla.

Altri corollari ne discendono. Quale strategia ne scaturisce? La stessa che il ragno adotta con gli insetti. Costruisce la tela e si pone in attesa che gli insetti, nel normale avvicendarsi delle loro attività, si impiglino nella ragnatela e muoiano trasformandosi in cibo. Fuor dalla metafora, le aziende più forti si posizionano in uno stato di “resistenza”, ossia fanno di tutto per rimanere sul mercato, anche in un regime di bassissima profittabilità, spesso negativa e attendono che il mercato “uccida” le aziende meno robuste che chiudono e liberano fette di mercato, rinvigorendo il business di quelle che riescono a rimanere in gioco. Quando lo scenario si consoliderà il business potrà essere ripreso in condizioni di maggior forza, sia per le ottimizzazioni realizzate ma soprattutto per la minor presenza di competitori sul mercato. Quella del ragno è l’unica strategia che i colossi mondiali stanno attuando.

Con queste premesse si può leggere il protocollo per lo sviluppo e la competitività. Ed è bene leggerlo a strati, ossia partendo dal cuore e proseguendo verso le parti con rilevanza inferiore e subordinata. Qual è il cuore del protocollo? Se la premessa ha un senso, il paragrafo cardine è quello titolato: “Ottimizzazione assetto produttivo”. Infatti in tale paragrafo si prospetta la strategia del ragno. La possibilità di variare l’utilizzo della capacità produttiva fino alla temporanea fermata degli impianti. Ecco il cuore del protocollo.

In successione subentra il paragrafo sulla “Flessibilità e orario di lavoro”, anch’esso strumento congruente con la strategia della modulazione della produttività finalizzata alla profittabilità. E l’assenteismo per malattia a cui è dedicato un paragrafo specifico? E’ un tema utile da trattare per l’ottimizzazione, ma non il principale. Lo testimonia il fatto che il tema è noto e presente in azienda da decenni e si coglie l’occasione del protocollo per dare un indirizzo correttivo. Appunto perché tra produttività e profittabilità ormai il primato è passato alla seconda.

Questa l’analisi dello scenario e le deduzioni quasi conseguenziali.
Ed il sindacato locale e nazionale come si muove? Ha colto la novità dei temi? Sta elaborando nuove forme di interazione? Si continua a parlare di investimenti e a misurarne l’entità volumetrica, monta il tema delle ricadute sull’indotto e si rispolverano principi di competizione territoriale, in alcuni casi di “primati” legati alla geografia delle ditte. Non è il momento di manutenzionare i principi che ispirano l’azione sindacale rendendola più accorta? Non è cosa facile ma tentare un cambiamento è possibile.

Ad esempio, se la profittabilità è diventata la priorità delle grandi aziende, in un contesto di resistenza sul mercato, la prima ricaduta è che tale parametro dovrebbe entrare prepotentemente anche nelle contrattazioni sindacali. Sedere ai tavoli di contrattazione dando per scontato che le riorganizzazioni e le ottimizzazioni si fanno per “alleggerire” le strutture è forse un approccio da rivedere. Spesso la profittabilità passa attraverso i meccanismi con cui si alleggeriscono le strutture o le si potenziano.

Occorre cioè che il sindacato non si confronti solo sul piano della salvaguardia lavorativa hic et nunc, al presente, ma chieda conto della verifica di profittabilità degli interventi sul lavoro organizzato. Deve cioè cominciare ad acquisire quelle competenze per leggere la profittabilità del business e richiedere che le azioni di ottimizzazione che le aziende concertano producano ricadute positive sul bilancio aziendale.

Devono imparare a monitorarle e a fare feedback, ossia riprendere i temi degli accordi ed effettuare le verifiche di profittabilità, nel caso migliore usarle come presupposto per i futuri accordi. Un sindacato “più cattolico del Papa”, ossia più manageriale dell’azienda. Sembra una battuta provocatoria, ma direi anche estremamente moderna. Sono capacità che si possono acquisire nel tempo e consolidare. Perché un’azienda profittevole è un’azienda che sa investire sulla qualità dei processi e non solo sui volumi e alla fine sa anche assicurare occupazione.


Autore : Sebastiano Abbenante

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