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notizia del 17/10/2010 messa in rete alle 18:00:25
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La mafia gelese al forum di Firenze
A Gela, la mafia ha controllato per diversi anni un territorio complesso e ricco di contraddizioni: dalla prosperità promessa dal “sogno” industriale alla deriva economico-sociale, fatta di disoccupazione ed evidente disagio.
Alessandra Dino (nella foto a destra), docente di Sociologia giuridica presso l'Università degli studi di Palermo, ha analizzato, nel corso degli anni, questo fenomeno tanto violento quanto ricco di sfaccettature.
Secondo la studiosa, infatti, la mafia gelese, al pari di altre organizzazioni, si caratterizza per taluni inconfondibili tratti.
“Le violenze compiute negli anni sul territorio di Gela – dice la Dino – per alcuni aspetti possono dirsi uniche nel panorama siciliano, soprattutto per il protagonismo assunto dai minorenni, spesso dei veri e propri bambini con la pistola, e per la cruenta contrapposizione tra stidda e cosa nostra”.
I nomi, gli eventi, le uccisioni, gli agguati, tutti fattori di una recente storia, non solo locale ma anche nazionale, si conoscono e difficilmente verranno estirpati dalle menti di chi c'era.
“Minori come quelli utilizzati dalla stidda retta dal duo Cavallo-Iannì – ammette la Dino – erano ragazzini privi di scrupoli, interessati ad uccidere allo scopo di interiorizzare quel senso di costante trionfo che veniva riflesso dai capi, anche loro avrebbero voluto seguire l'esempio dei boss, sparare, uccidere ed essere temuti, non solo dai coetanei ma addirittura dagli adulti”.
Riemergono da un pozzo, forse troppo presto coperto da pesanti travi, le immagini dei bambini di mafia, contrapposti l'uno all'altro tra i vicoli della città.
I fratelli Iannì, oggi dissociatisi da un destino che troppo presto li aveva condannati, Salvatore Tumeo, piccolo scippatore torturato e ridotto ai minimi termini per aver, inconsapevolmente, scippato la moglie del boss Aurelio Cavallo, Emanuela Azzarelli, ragazzina in grado di imporsi sui maschi, Marco Cannizzo, arso vivo per aver tentato di insidiare una rampolla del clan Trubia, Carmelo Rapisarda, tra i killer che il 27 novembre di vent'anni fa, in meno di mezz'ora, misero a ferro e fuoco la città.
“Per i minorenni utilizzati nella guerra di mafia gelese – aggiunge Alessandra Dino – uccidere era diventato normale, è un tipico processo che tende alla neutralizzazione del crimine, si elimina l'altro per adempiere un ordine, punto e basta, solo così vi era la possibilità di fare carriera all'interno dell'organizzazione, togliere la vita ad un ragazzino era una pratica da svolgere con precisione, rafforzando il gruppo di riferimento”.
“Ci sono studiosi – ammette ancora la docente universitaria – che nel corso degli anni hanno formulato, soprattutto per gli aderenti alla criminalità organizzata, la teoria del cosiddetto psichismo mafioso, ovvero una sorte di patologia mentale che dominerebbe i meccanismi mentali degli affiliati ai clan”.
“Questa teoria – continua la Dino – è, a mio parere, del tutto infondata, poiché riduce tutte le dinamiche mafiose entro una dimensione patologica, priva, al momento, di qualsiasi riscontro empirico e pratico”.
La docente palermitana, autrice di diverse ricerche in materia, ritiene, al contrario, che “il contesto mafioso sia molto più complesso, perché prodotto di molteplici elementi, sociali e non solo, che la corrente psichista tende, invece, ad occultare”.
Conquista di un potere illimitato, neutralizzazione del crimine, riscatto sociale rispetto ad un'esistenza priva di vere gratificazioni: in una battuta, uscire dal ghetto uccidendo i rivali, istituzionali o mafiosi che fossero.
Autore : Rosario Cauchi
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