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Corriere di Gela | Gela, ipotesi di sviluppo
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notizia del 29/11/2004 messa in rete alle 16:28:25
Gela, ipotesi di sviluppo

Gela come Caronia è una città dalle passioni incendiarie, seppure la cronaca sulle tante auto bruciate non ipotizza mai possa trattarsi di auto-combustione.
Nessuno fa sconti a Gela. Appena la nomini, non fosse altro per dire che ci sei nato, il 99% degli interlocutori non ti risparmia la tiritera: che brutta città!! Ma come ci vivete? etcetera etcetera… L’unico sollievo te lo dà qualche straniero, che so io un cinese, al quale Gela suona come Fela, Pela o Tela. Non la conosce. Ma appena dici Sicilia, ci puoi giurare che attacca la solfa della Mafia o del Padrino. A quella non si sfugge nemmeno con un indigeno della Papuasia.
Ora sarà che se vivi l’infanzia in un posto, fosse pure Falluja o Gaza, ti pare Portofino, ma pensando a Gela, alle condizioni non del tutto compromesse di quel territorio, ai nodi irrisolti del suo mancato sviluppo, c’è chi è così astruso da immaginarlo ancora come un luogo di speciale bellezza.
Un pensiero originale che è contro ogni evidenza e contro tutti. Come uno strano incantesimo che ti porta a pensare Gela come una terra in mezzo al mare, con belle campagne arse dal sole, con una luce unica, piena di gente, giovani e picciriddi. Potenza della nostalgia.
So bene che è una visione certamente naif, ma quello che di Gela credo possa ancora piacere è anche la sua "amorale" convivenza (e connivenza) di tante storie, più o meno tragiche o allegre. Spiego meglio. Gela è una realtà di mare che non può proprio definirsi “una bella città d’arte”. Ma come Livorno, Pozzuoli, Mazara, Termini, Augusta o Milazzo, è una città senza perbenismi, una città interrotta e amorale, con i marciapiedi sconnessi occupati da mille traffici, con signore che la mattina escono di casa per le faccende e che non han-no tempo e soldi per i parrucchieri. Insomma una città operaia ed anche agricola, un porto di mare, un putiferio di case abitate da tanta gente semplice e sana che convive accanto a gente insana e complicata.
La Sicilia è anche fatta di realtà che non sono mai state e non saranno mai eleganti salotti come Cefalù o Taormina. Gela è tutto al più una disordinata e vissuta stanza di servizio.
Gela a pieno titolo è anche una importante realtà urbana italiana, aperta ai benefici effetti della "brezza marina", naturalmente difesa dall'arsura, dal puzzo di immondizia e uova marce, dalla stagnazione delle idee.
Gela è una realtà normale, senza mostri e scheletri nell'armadio. Se per alcuni è una realtà malata, la sua infermità maggiore è la mancanza di lavoro. In certi giorni se si arriva di botto a Gela, l'assurda disoccupazione dei suoi abitanti è la cosa più evidente, come la luce del sole. Ma molti si accorgono solo delle case abusive e delle ciminiere che sputano veleno.
Gela forse è ancora povera, ma non è più la città delle foto di Sellerio. Non si entra più in paese dopo aver sorpassato carretti, non ci sono più le macellerie con i capretti sgozzati appesi al gancio, le piazze non sono una distesa di coppole. Stanno pure scomparendo quei signori con le rughe abbronzate che dopo il lavoro in campagna salivano in piazza, con la camicia bianca, il pantalone scuro, la cintura e le scarpe nere con i lacci. Noi borghesi li chiamavamo ‘viddani’, senza accorgerci della loro intrinseca, essenziale e dignitosa eleganza. Questa estate non ho trovato una camicia di quel tipo neanche al mercatino settimanale, vendevano solo camicie a quadri con il colletto abbottonato.
Certo nell'ultimo trentennio, una modifica profonda del paesaggio gelese vi è stata, e in negativo, ci sono molte più case, una quantità impressionante di immobili frutto di debiti, di sudati Tfr o di altro ancora.
Come in altre realtà del meridione ci confrontiamo da decenni con una stagnazione che ha cronicizzato la mancata riconversione del nostro modello di sviluppo.
La letteratura dice che la crisi odierna è in realtà figlia di un ininterrotto susseguirsi di crisi: la fine del vecchio assetto produttivo basato sul settore primario; poi la crisi dei poli industriali; l’uso deviato dei fondi pubblici e la fine dell'intervento straordinario; quindi la violenza mafiosa che ne sopravvenne; accompagnata dalla crescente disoccupazione. Una via crucis di disgrazie frutto di colpevoli latitanze e connivenze.

Ma diciamocelo ancora, con l’onestà dell’auto-critica: la crisi gelese, come in poche altre realtà, ha trovato alimento e concause nelle deviazioni scaturite all’interno del suo corpo sociale, di destra, di centro e di sinistra. Una società civile offesa dalla violenza, segnata dalla fuga di braccia e cervelli, confusa nella sua identità, pervasa da un malinteso senso della modernità e dalla debolezza dei suoi valori di democrazia, diritto e civile convivenza. Non c’è bisogno di particolare acume e preveggenza per immaginare cosa potrà ancora accadere in Sicilia e a Gela, a causa dello scenario determinato dalla riduzione progressiva dell'intervento statale e comunitario, a seguito della riforma dei fondi strutturali e dell'allargamento ad est, senza parlare delle due torri e di Bin Laden. Con una economia ancora dipendente dall'intervento pubblico, dalle sovvenzioni globali, dai contratti d'area, soprattutto nelle province di Enna, Caltanissetta e Agri-gento, se non si fa qualcosa subito, in molti dovranno cominciare a studiare l'inglese e il tedesco, come pare suggeriva Mario Scelba. Tangibile è la progressiva riduzione dei trasferimenti statali: gli Enti locali fanno già fatica a trovare risorse per il mantenimento dei più essenziali servizi pubblici. La riduzione è sentita in modo forte in Comuni come quello di Gela che hanno una percentuale di autonomia finanziaria che in media non va oltre il 40%.
A Lecco o a Segrate possono anche fregarsene della riduzione dei trasferimenti, con una percentuale di autonomia che rasenta il 90%. Tuttavia i Comuni non hanno scelta, devono continuare a svolgere i loro compiti: erogare servizi essenziali, creare le premesse per lo sviluppo, favorire gli investimenti nel rispetto degli interessi collettivi, agevolare le opportunità offerte dagli enti sovraordinati, tutto il resto lo dovranno fare i cittadini e le forze economiche e sociali. Spero di non sbagliarmi se affermo che solo nell’ultimo decennio alcune classi dirigenti locali siciliane, hanno iniziato a svolgere i compiti su citati. Gli altri, intendo la gran parte dei cittadini lo facevano da prima.
In Sicilia si stanno forse gettando le premesse per uno sviluppo duraturo, riconcordando con gli “attori economici e sociali”, qualcosa che assomiglia a un nuovo e credibile modello di sviluppo, alternativo al precedente fondato su petrolchimica-agricoltura fertilizzata-serricoltura a sud-est; pesca e viticoltura a ovest; pubblico impiego ed edilizia ovunque.
Un modello che nei decenni ha forse garantito una parziale e mal distribuita crescita economica, ma che oggi ha quasi esaurito la sua “spinta propulsiva”. In tale contesto è credibile un nuovo modello di sviluppo fondato sui beni culturali e ambientali?
Con o senza la deriva schizoide dei parchi di divertimento, tipo quello immaginato al lago Pozzillo di Regalbuto?
Lo sapevate che la Regione governata da quel fenomeno di Cuffaro ha impegnato diverse centinaia di milioni di euro per tale follia (RegalbutoLand)?
Pare con il benestare di alcuni esponenti politici dell’opposizione di quella disgraziata provincia?
formulo meglio le mie domande:
– assunto che il solo possesso di beni ambientali e culturali non è sufficiente a far partire un processo di sviluppo, perché se cosi fosse i cittadini di San Giovanni in Fiore, di Pompei o Padula, per non parlare dei Piazzesi, dovrebbero essere già occupati e benestanti, e non lo sono affatto. in luoghi come Gela, si può puntare solo su mare, cultura, turismo e prodotti tipici, di-fendendo quel poco di lavoro industriale che rimane, senza accompagnare tale percorso di sviluppo con una sana e certa dinamica di crescita e rafforzamento:
– dei “saperi locali” e delle competenze, che sono i veri "fattori competitivi" ?
– della capacità del territorio di presentarsi come un territorio “servito e sicuro”?
La classe politica locale dovrebbe a sua volta porsi ogni mattina le seguenti domande: Come possiamo attrarre capitali e investimenti, negli ambiti manifatturieri, commerciali, artigianali, industriali, e in quelli delle nuove economie e dei servizi?

Perché in Toscana, Marche, Emilia, Veneto, Friuli, tra mille contraddizioni, perseguono da quarant'anni in modo sincrono tutte le ipotesi di sviluppo localmente possibili, forse caoticamente, ma con il risultato della piena occupazione, mentre noi in Sicilia siamo sempre coattivamente obbligati a ripetere gli stessi errori?
Perché in Sicilia di decennio in decennio ci fissiamo sulle mono-ipotesi di sviluppo: a Gela, Augusta e Milazzo la petrolchimica con l’agricoltura fertilizzata, a Taormina, Sciacca e Cefalù l’arte-turismo e il mare, a Marsala e Trapani il sale-vino e i mulini bianchi, a Misterbianco e Paternò l’Etna Valley e i Megastore (che sono ipotesi più concrete)?
Temo che le classi politiche locali siciliane siano tuttora vincolate negli angusti limiti delle proprie risorse materiali e mentali, e ansiose di non riuscire a “svoltare” (direbbero i romani) cercano scorciatoie per uscire dal sottosviluppo; con la gioia immensa di una classe di lestofanti che vende sogni di opere faraoniche e meravigliosi ponti (tagliando gli altri, quelli festivi): – parlano tutti a più non posso di turismo sostenibile, di produzioni biologiche, di investimenti sul capitale sociale, ma poi consentono in parallelo vecchie speculazioni (d’Antan) come al Lago Pozzillo con “RegalbutoLand”- “EtnaLand”, con pezzi di territorio che si sfasciano, risorse importanti come l’acqua che si sprecano (!), ma cosa ancora più grave, con ingenti risorse finanziare che si sperperano a beneficio di fantomatici geni della finanza (di origini siciliane come qualche banchiere di Zurigo o Malta).
Tutto ciò non vi sembra assurdo in una terra che ha bisogno di certezze e non di azzardi?
Mi pare che in molti stanno di nuovo preparandosi a fingere meraviglia che dietro le generose intenzioni di investimenti, si scopra invece la necessità di efficaci “blanchissement d’argent” degli amici degli amici, o solo la vecchia famelica ingordigia di denaro pubblico (o tutte e due le cose).
Il turismo sostenibile, le economie durature, la qualità della vita, lo sviluppo auto-propulsivo sono tutte belle cose che richiedono tempi lunghi, progetti reversibili e non “specialistici”, approcci integrati e molto buonsenso. Invece i siciliani hanno “prescia” e votano Cuffaro, che regala sogni istantanei e baci veloci come il suo mentore nazionale.
Siamo tutti pronti a credere che le stupide scorciatoie, le volgari e costose opere infrastrutturali, i luna park insostenibili e di cattivo gusto, i campi da golf mal innaffiati, possano creare sviluppo. Chi tenta di spiegare che il tunnel sotto la manica, la più grande operazione di project financing mai realizzata, una infrastruttura gestita da una megasocietà transnazionale franco-britannica (non siculo-calabrese), dopo dieci anni di esercizio sta evitando il fallimento grazie a malcelati aiuti di stato, viene azzittito. Tutti gli esperti concordano che nel tunnel sotto la manica non ci passano sufficienti merci e mezzi, necessari a sostenere gli enormi costi di manutenzione in esercizio. Quindi dopo qualche anno la società Euro-tunnel ha iniziato a licenziare, diminuendo enormemente la sicurezza dell'infrastruttura e i volumi di traffico ipotizzati. Ma noi ci accingiamo a costruire lo stesso il ponte sullo stretto.
Si sono chiesti se tra Amsterdam/Parigi e Londra non c'è abbastanza traffico, perché mai ci dovrebbe essere tra Messina e Sangiovanni? Chi porterà i 3 milioni di visitatori annui previsti per la sostenibilità economica di “Regalbutoland”? No, non se lo vogliono chiedere. Le scorciatoie e le operazioni “furbe” non sono sostenibili, hanno gambe corte e nasi lunghi. E allora? Hanno il pregio di far spendere in un sol colpo 500; 6000 o 9000 milioni di euro. Per la felicità delle consorterie affaristiche di Lunardi in combutta con i palermitani, i messinesi e i reggini, che si accontenteranno dei sub appalti.
Questione di scelte sulle quali dovremmo incidere, quelle scelte che solo alcuni vogliono prendere, per favorire i bravi ragazzi di casa propria e gli appetiti coloniali dei forestieri, come nei raggianti anni 70, 80.
Ma noi, intendo quella società civile che per Hegel era sinonimo di “mediazione tra gli scopi egoistici degli attori economici e gli interessi generali dello stato”, o più banalmente il consorzio degli uomini di buona volontà, possiamo spiegare che tutto ciò è pura follia ? Anche a partire da quel recondito luogo che è Gela, potremmo provarci. Ma quale alternativa proponiamo ai loro folli disegni?
Potremmo anche dalla più disgraziata delle città, proporre che non è solo di strade e infrastrutture che abbiamo bisogno, ma anche e soprattutto di territori sicuri, serviti e attrezzati. Territori dove le idee possano tradursi in innovazione, per l’impresa di qualsiasi tipo e dimensione, e poi di nuovo per la gente e per i territori stessi. Gela può e deve proporsi come nuovo incubatore territoriale, in grado di rispondere alle esigenze di un’impresa sempre più leggera, ma sempre più complessa (lavoro qualificato, capitale di rischio, innovazione, specializzazione produttiva e saperi strategici). Una città che vuole stringere un patto che si traduca in alleanze per l’ambiente, per lo sviluppo, per la solidarietà e per la politica.


Autore : Giuseppe Clementino

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