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notizia del 12/01/2013 messa in rete alle 15:09:47
La città e il suo male
Nei consuntivi di fine anno, in uno dei quotidiani regionali siciliani, un’intera pagina è stata dedicata all’intervista al procuratore della repubblica di Gela Lucia Lotti ed al sacerdote Giuseppe Fausciana. Immagino che le due interviste siano state partorite senza interazione reciproca. Eppure entrambi i ragionamenti rivelano interessanti affinità che confermano una rappresentazione della gioventù gelese straordinariamente mirata.
Questa sincronia dimostra che la percezione della realtà gelese può indurre a scovare la vera “lacuna” che domina la società gelese nella sua componente più dinamica, che è quella giovanile.
Le pennellate precise e mirate del Procuratore si riassumono nella “destrutturazione delle organizzazioni criminali”, nell’alto tasso di criminalità tra i giovani di 20-21 anni ed in una “subcultura” che detta le regole per risolvere le piccole beghe personali. Anche don Giuseppe, il cui impegno con i giovani è un patrimonio cittadino, riassume un catalogo mirato di comportamenti penalizzanti: apatia, disinteresse, conflittualità, insoddisfazione, mancanza di appartenenza, tutte componenti che inibiscono una corretta relazione tra i giovani e i gruppi di giovani. Entrambi esordiscono con due parole evocative: il procuratore ripete più volte la necessità di favorire una “cultura” che faccia crescere la città e la consapevolezza sui comportamenti. Don Fausciana auspica invece lo sviluppo di una capacità di “relazione” come base per costruire il futuro personale e collettivo dei giovani.
Queste non sono parole dette a caso, entrambi gli intervistati, per mandato istituzionale o per missione apostolica hanno metodi, strumenti e obiettivi che rendono tali valutazioni dei punti di partenza eccezionali per approfondire il “male” dei giovani di oggi nella nostra città.
Cultura e relazione sono parole chiave e non sono prerogative che si possono esprimere nell’individualità della persona, quanto piuttosto nella vita collettiva di una comunità. Ma a quale “cultura” si riferiva il procuratore dott.ssa Lucia Lotti? A quale tipo di “relazione” voleva alludere don Giuseppe Fausciana? Queste domande ci portano dritte a ricercare il “male” di Gela, ossia quella componente (non unica) che caratterizza la disaggregazione del tessuto sociale cittadino, producendo criminalità giovanile o malessere diffuso tra i giovani.
Per dare una risposta ai quesiti dobbiamo evitare di ricercare risposte nell’ambito del perimetro, cosiddetto, della “persona”. Il male di Gela non mi pare possa generarsi nel complesso valoriale che fa capo alle persone come individui; in altre parole, devianze, conflittualità e disinteresse dei giovani non possono, a mio avviso, avere origine dalla sfera individuale, semmai l’effetto è anche individuale. La genesi del malessere gelese, specie giovanile, va ricercato, a mio avviso, in un deficit di esperienza nell’ambito delle organizzazioni che una città può proporre come opportunità ai propri concittadini. Le organizzazioni, di qualsiasi tipo, sono strutture normate che producono ciò che viene definito “sensemaking”, ossia una attribuzione di significato che crea identità, con la peculiarità che tale significato si sperimenta e si rafforza nell’azione interna alle organizzazioni e produce punti di partenza per migliorarsi e per generare un ruolo che, a sua volta, rafforza ancora l’identità, ottimo antidoto al malessere giovanile. Far parte di organizzazioni strutturate, finalizzate, democraticamente aggreganti fa sì che i giovani producano parte dell’ambiente che frequentano e ne ricevano stimoli e condizionamenti. Questo genera tanto senso e dà ai comportamenti la possibilità di essere inseriti in strategie e obiettivi. Gela non è povera di individualità, è povera di organizzazioni. Aggiungerei di organizzazioni vere e strutturate. Non a caso il procuratore Lotti aggiunge che la città è ricca di potenzialità e vitalità, che purtroppo si esprimono in termini individuali ma non sempre organizzativi. Quando ciò accade la città ne riceve un beneficio ed i giovani si aggregano e riscoprono senso e significati. La microcriminalità ritrova nelle organizzazioni o raggruppamenti criminali quel senso che la società civile non riesce a proporre e la penuria di organizzazioni, a cominciare da quelle tipicamente lavorative, crea un’emorragia di impegno fuori da esse, che la criminalità capta ed utilizza.
Oggi, creare organizzazioni a Gela, individuarle, farle crescere è l’azione più fruttuosa che possa essere messa in campo per i giovani. Lo sanno bene il procuratore Lucia Lotti e il sacerdote Giuseppe Fausciana. Gela è la città ove la nascita, che e’ il più esclusivo atto umano, viene gergalmente tradotta con il termine “ccattare un figghiu”, che è quanto di più individualistico possa concepirsi. Gela è ammalata di mancanza di vere organizzazioni civili e prosperano invece paradigmi individuali. Il massimo dell’apertura è l’organizzazione familistica (non familiare) che di fatto un’organizzazione non è e che induce comportamenti chiusi e parassitari. Il commercio è familistico, la politica è familistica, gli elettorati sono familistici, le relazioni sono prevalentemente familistiche, anche l’approccio al più grande insediamento industriale è di tipo familistico (i cambi padre-figlio sono un retaggio tipicamente locale), insomma una città che non respira regole e ruoli.
A questo preludono le riflessioni degli intervistati o comunque mi pare di poterlo dedurre come implicanza dei termini “cultura” e “relazioni”.
L’uomo moderno ha ormai seppellito l’epica, intesa come narrazione delle virtù del singolo e degli eroismi del protagonista. Siamo una società organizzata, figlia delle rivoluzioni dell’ ‘800 e del ‘900, ove l’uomo e le nuove generazioni producono contesti e ruoli all’interno di regole e patti strutturati in organizzazioni. Pare che Gela sia rimasta invece una città omerica, alla ricerca di protagonismi impossibili che non creano ruoli e relazioni ma solo competizione e apparenza.
Autore : Sebastiano Abbenante
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