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Corriere di Gela | I diavoli di Gela
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notizia del 14/04/2013 messa in rete alle 15:09:22
I diavoli di Gela

Il direttore del Corriere di Gela ha esordito nell’ultimo numero con il titolo “Eni è il solo diavolo?”. Si è cioè interrogato, in sostanza, se l’attività della magistratura sul versante ambientale sia focalizzata, con prevalenza, sulle tematiche industriali e se Comune, Provincia e associazionismi vari locali fossero esenti da responsabilità per il ruolo che esercitano. Un quesito complesso ma attuale perché connesso ad un altro tema che la città di Gela fa fatica a pronunciare: “sviluppo industriale”.

Il fatto stesso che ci si possa interrogare sulla “prevalenza” nell’indagare responsabilità percepite da un territorio e che poi si traducano in atti di accertamento è di per sé un’analisi utile. Utile, almeno, perché varia l’approccio, da “rivendicativo”, verso qualcuno o qualcosa, a “sistemico”, in quanto oggi i sistemi di sviluppo industriale e di controllo istituzionale sono interconnessi vicendevolmente e la loro efficienza determina fatti ed eventi che difficilmente possono essere attribuibili, almeno come innesco, a singole volontà.

Gela da troppo tempo è ferma nel proprio modo di concepire il lavoro, il modo come ricercarlo, le leve per favorirlo e i metodi per monitorarne le ricadute. E’ recente la notizia di un bando comunale per attivare consulenze, a titolo gratuito, di cui una sulle politiche di sviluppo industriale. Già l’incarico, per la sua generalità, denota la ricerca di una direzione su ciò che è sviluppo industriale, una ricerca che manca di un’analisi critica su quali vincoli questa città ha costruito sul tema del rapporto con le industrie (perché Gela è terra che ha dato i natali ad imprese industriali diverse dall’insediamento Eni che hanno una rilevanza extranazionale). Ecco perché l’incarico risulta così generico e non parte da un indirizzo che potrebbe invece finalizzarlo.

Un preambolo però va fatto per chiarire un tema che è stato stravolto nella concezione generale collettiva. Fare industria significa fare attività generalmente ad alto tasso di rischio: ambientale, di sicurezza individuale, di sicurezza collettiva e financo di stabilità sociale. L’approccio industriale lo ritroviamo non solo in siti che insediano impianti ma anche in attività apparentemente meno impattanti. E’ industriale l’approccio al business del turismo, al business della ristorazione, al business dell’intrattenimento. Cosa accomuna questa “industrialità” nei vari settori? In una parola il controllo del rischio. Leggi, norme, procedure, istruzioni operative, certificazioni, tutto questo complessissimo sistema di metodi e norme regola l’uso della tecnologia e della sua applicazione. L’ingegneria è quella competenza che associa tutto questo con un rischio accettabile al fine di produrre ricchezza. Questo banale concetto, retaggio di economie europee più forti della nostra, si sta gradualmente perdendo e nel nostro contesto si è quasi dimenticato. Nessuno oserebbe definire l’attività della magistratura un’attività a rischio inaccettabile perché può preludere a pene detentive come l’ergastolo. La ragione comune non rigetta tale tipo di poteri perché ne riconosce l’indispensabilità funzionale.

Anche la produttività ha una sua indispensabilità in un contesto nazionale, europeo e mondiale. Monitorare il ruolo di compressione del rischio che le norme impongono è attività dovuta oltre che etica lavorativa, comprimere la velocità con cui deve viaggiare un sistema industriale rallentandolo con autorizzazioni che non arrivano mai o indagini monodirette per soddisfare umori generali è invece un chiaro messaggio di antimodernità. Le culture nord europee sono intransigenti sul versante del miglioramento dei rischi e sugli impatti delle produzioni ma coniugano ciò con un reale supporto all’intrapresa industriale a cominciare dallo stile decisorio delle istituzioni pubbliche che in Italia è pressoché assente.

Gela vive anche di un associazionismo diffuso, che è senz’altro segno di una dinamicità delle volontà, ma sia chiaro che l’associazionismo rappresenta i propri aderenti non l’intera collettività, rappresenta minoranze e, a volte, gruppi di influenza, non rappresenta la popolazione. Ne consegue che spesso i volumi di influenza mediatica risultano spropositati rispetto agli aderenti. Anche questo determina la percezione collettiva dei fatti.

Ben ha fatto il direttore del Corriere ad interrogarsi sui «diavoli di Gela», già l’aver usato il plurale denota la ricerca delle mille ragioni ed i mille interessi che muovono una comunità. Nessuno può chiamarsi fuori dai mille errori che l’interesse produce e nessuno può costruire ruoli pubblici che siano esenti da responsabilità.


Autore : Sebastiano Abbenante

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