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notizia del 09/04/2011 messa in rete alle 14:11:39
La gelesitudine e la sua genesi
L’occasione è ghiotta per parlare di “gelesitudine”. Traggo lo spunto dall’articolo di Marco Trainito che fa perno su una “Gela, teatro di miseria e nobiltà”, pubblicato nell’ultimo numero del «Corriere di Gela». Oltre l’opinione, comunque articolata con riferimenti letterari e intrisa dell’inconfondibile anticlericalismo e anticonfessionalismo ragionato del nostro concittadino, l’articolo contiene un’operazione concettuale che merita di essere ripresa e ulteriormente sviluppata. Perché di tali operazioni analitiche Gela è povera, mentre tali riflessioni potrebbero essere utilizzate anche da una politica che non vuole essere solo amministrazione del presente. Una politica che interpreta la città prima di agire, ove l’azione è quella che si sviluppa su dei binari interpretativi della realtà e si dispiega nel lungo periodo.
Ma prima di svelare l’utile operazione analitica dell’articolo, mi permetto, a voce sommessa, di aggiungere una riflessione laterale al ragionamento di Marco. La voce è sommessa perché la riflessione ha carattere di soggettività e pertanto non trae forza dal vero ma dal comune sentire.
Marco riconduce i caratteri del cittadino-tipo gelese, o meglio ancora dei suoi comportamenti (perché questi vanno analizzati e non la “natura” del gelese che è un concetto che nega l’evoluzione e l’adattamento), all’influenza di un “cattolicesimo degenere, sostanzialmente miracolista, fatalista, superstizioso e parassitario” che ha agito sulle “strutture mentali e comportamentali, di generazione in generazione”.
E l’analisi, incrociata con i pareri di autorevoli scrittori di sicilitudine, è accattivante, difficilmente confutabile ed in varie forme riscontrabile perché permeata nel sociale. Attribuire però al santo di Pietrelcina attributi che lo leghino all’interpretazione del modello comportamentale, ha insita la pecca di limitare la dirompenza dell’analisi. L’analisi è ancora più tagliente se il santo vien tenuto fuori dal ragionamento. Il sistema di enfasi ecclesiastica, che utilizza e piega ai suoi fini i comportamenti del santo, è il vero attore che induce comportamenti di massa, non certo un individuo che opera nella sua sfera locale anche se carismatica. La mia riflessione è pertanto un rinforzo al ragionamento di Marco a condizione di non caricare sugli inneschi le responsabilità dei sistemi che fanno, consapevolmente, da cassa di risonanza universale.
Detto questo, finalmente si assiste ad un’operazione concettuale che, prima di proporre vie di riscatto e cambiamento, da sfogo ad un’analisi della “gelesitudine”, ossia costruisce il precedente dell’agire che è l’analizzare e interpretare il modello sociale rappresentato da una comunità. Questa, comunque la si pensi sul modello interpretativo proposto, è un’operazione meritoria perché utile a dare chiavi interpretative. Pertanto, per rinforzare il metodo, affiancherò un ulteriore sintetico tentativo di analisi sul modello comportamentale gelese, proponendolo al lettore. Parto da una domanda e da una variazione sul metodo che dia priorità alle attività economiche di un contesto sociale, attribuendo ad esse una capacità di condizionamento prevalente.
La domanda: quale attività economica oggi permea, con prevalenza, i comportamenti dei gelesi e li condiziona? Si sarebbe indotti a ricercare, tra le attività economiche condizionanti, quelle ad ampio fatturato o comunque quelle che impegnano ampi flussi monetari. In realtà oggi non è più così.
L’assodata regola aurea che lega con diretta proporzionalità gli investimenti e i posti di lavoro del comprensorio non è più valida. Non mi dilungherò a spiegarne le cause. Questo significa che la raffineria, pur con i suoi consistenti flussi economici che transitano nel territorio, non influenza più i comportamenti sociali di Gela. Ciò era vero negli anni ’60, ’70 e ’80, oggi non più. Quali altre attività economiche invece stanno influenzando lo stile di comportamento dei gelesi?
A mio avviso è il commercio, quello tipico di Gela, di tipo padronale, scarsamente aggregativo, sofferente di tutto ciò che dall’esterno può inserirsi in città, con particolare riferimento ai grossi centri commerciali o a formule aggregative estese di vario genere. Si consideri che il tasso di apertura e di chiusura degli esercizi commerciali è mediamente alto, il che significa che è una forma di alternativa lavorativa ampiamente valutata in un panorama del lavoro che prospetta orizzonti sempre più compressi. Tale tipo di commercio, dal respiro corto, crea un’occupazione prevalentemente precaria e non sempre regolare. L’impatto sullo stile di vita dei cittadini è peraltro ampio, basti pensare che sono gli esercizi commerciali che danno il volto alla città, ne condizionano la viabilità, la fruibilità dei marciapiedi, la possibilità di intrattenimento, la capacità di scelta della popolazione e non ultimo la percezione delle regole. Tale commercio, dal breve respiro, costringe infatti ampie fasce di gelesi a migrare, il sabato e la domenica, verso i grossi centri commerciali di altre cittadine.
Pertanto, l’effetto di mantenere a Gela i flussi economici dei gelesi è pura illusione. Insomma, una fascia sociale che tenta di chiudersi, usare il territorio, perpetrarsi ma senza inglobare il meccanismo dell’aggregazione e della sfida. La mancanza di un cinema o di ipermercati o centri commerciali con massa critica ne è l’effetto. La città risulta, pertanto, chiusa in se stessa. Non contaminata positivamente da energie e risorse esterne. Ne consegue che la città non evolve e non si modernizza anche per tale impatto, apparentemente sottovalutato ma caratterizzante stili ed approcci che ad esso possono essere ricondotti.
Tale elemento non è l’unico a condizionare la città, ma è uno dei prevalenti. Pertanto, caro Marco, mettendo assieme chiavi interpretative a sfondo sociale, forse si riuscirà a capire meglio la “gelesitudine”, aprendo peraltro un dibattito che potrebbe ispirare nuovi e più sfidanti indirizzi politici.
Autore : Sebastiano Abbenante
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