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notizia del 29/05/2011 messa in rete alle 12:35:31
Al nord rischiano la povertà, il sud l’ha già sperimentata
Il lavoro nobilita l’uomo. Una “massima” di vita la cui stessa brevità corrobora ad “aforisma”. Lavorando occupi tempo che sottrai all’ozio e rendi dignitoso il tuo contributo allo sviluppo sociale della comunità in cui operi. Ora, sorvolando, giusto per non appesantire la lettura, su concetti come alienazione, sovrappiù e quant’altro quel borghese di Marx, molto più acutamente che sul piano dell’ideologia politica, ebbe il merito di osservare, si può obiettare che esistono, invero, altre pratiche che occupano il tempo, benché non retribuite. Si, ma come fai a campare? Per di più, dalle nostre parti dimostriamo di adorare Machiavelli piuttosto che Marx: se non è il mezzo a contare, ma il fine e se questi è campare, ossia sopravvivere, a “nero” o regolarmente retribuiti l’importante è portare a casa la “grana” utile a tirare avanti la carretta. Dalle nostre parti – facciamolo pure cadere il velo – l’aforisma di cui sopra, andrebbe rivisto: “il lavoro, regolarmente retribuito o meno, è quella pratica che nobilita l’uomo, giacché gli permette di aggrapparsi ad una speranza di sopravvivenza economica”. Quella che viene subito dopo la sopravvivenza fisica, come ammonì un certo Darwin. Nulla di nuovo sotto il sole.
In realtà, sotto sotto, qualcosa di nuovo emerge. Un qualcosa che “è vero e non vero” al tempo stesso. Così, dall’aforisma siamo già agevolmente passati al “paradosso”. Quella “verità” che conoscevamo fino a ieri, per la quale “dove c’è meno lavoro (e quindi più disoccupazione), più alto è il rischio povertà”, oggi è anche una “non verità”. Chi o cosa ce lo dice? Uno studio scientifico condotto da alcuni ricercatori sulla base di pochi ma precisi parametri. Non ci riferiamo al rapporto annuale dell'Istat da cui tutti giornali hanno evinto, titolandolo in prima pagina, che il 25% degli italiani sarebbero a rischio povertà, con donne (escluse dal mercato del lavoro e quando non lo sono, sottoccupate, sfruttate ed a rischio licenziamento in caso di gravidanza) e giovani (inoccupati per lungo tempo e sempre più scoraggiati) che pagano più di tutti i costi di una crisi che ci riporta agli inizi del 3° millennio (cacciandoci indietro di 10 anni almeno) ed, altresì, con una produttività del lavoro ancorata al 2000 e la Sicilia a fare puntualmente da fanalino di coda. Ci riferiamo ad una ricerca del Centro Studi Sintesi di Venezia, effettuata rielaborando i dati Istat e del Dipartimento delle Finanze relativi all’anno 2008. Considerando le variabili dei differenti livelli di spesa per consumi delle singole famiglie, delle differenti dimensioni familiari e del numero medio di percettori di reddito per ciascuna famiglia, ciò che risulta dal confronto tra reddito e costo della qualità della vita, senza ombra di dubbio stravolge e sconfessa lo stereotipo del Settentrione ricco ed agiato, con il Meridione povero ed in difficoltà. “Ricchi eppure poveri”: è questo il nuovo paradosso che emerge a sfatare il mito del Nord produttivo e prospero, a fronte di un Sud sterile (figlio dell’assistenzialismo) ed indigente.
Il campione dell’indagine in questione, di fatto, è costituito dai 117 comuni capoluogo di provincia. Sulla base dei parametri utilizzati, sopra richiamati, i risultati della ricerca possono essere sostanzialmente estesi, con le dovute proporzioni demografiche, ai comuni delle rispettive province. Quel che vale per Caltanissetta (97ª), insomma, non si discosterebbe sensibilmente da Gela. Nel 2008 oltre il 12% dei contribuenti italiani (cioè 1 milione e 200 mila persone) ha dichiarato un reddito inferiore alla soglia media di povertà locale, pari a 9.893 euro annui, a fronte del quale il reddito medio è di 26.434 euro. Nella tabella ai primi posti troviamo il centro-nord, a scendere il centro-sud, con i comuni siciliani in fondo. Paradossale? Non proprio, volendo. Cosa ci dice “in soldoni” questa ricerca sul rischio di povertà (relativa) a livello territoriale? Ci avverte che “avere un buon reddito anche in linea con la media nazionale, non mette automaticamente al riparo dal rischio povertà locale, perché tale reddito va misurato in base al costo della vita nella città in cui si vive oltre a lavorare”. Ineccepibile. Tanto da spiegare perché – specie dalle nostre parti come detto – l’aforisma con cui abbiamo esordito (il lavoro nobilita l’uomo) andrebbe revisionato. In parole molto semplici, se al centro-sud chi non lavora rischia ovviamente la povertà, al centro-nord a rischiare è anche una fetta di chi lavora perché non ce la fa lo stesso ad ammortizzare i costi della qualità della vita.
Ciò che la ricerca non dice è come si avverte la crisi, o meglio, quella che passa per la peggiore recessione del dopoguerra. Laddove al Sud l’emergenza è la regola e, pertanto, ci si “regola” sulla base di ciò per sbarcare il lunario, cercando di rientrare in quelle reti di aiuto informale che si sono tramandate a livello generazionale, in parallelo a cassa integrazione (di cui s’è fatto ampio ricorso) e/o altre forme assistenziali e di solidarietà che le maglie legislative consentivano e consentono, al Nord l'abito indossato dal cittadino è quello di valutare l’operato pubblico in termini di qualità dei servizi (interesse collettivo) e di misurare ciò che ci si può permettere o meno individualmente col solo aiuto del proprio lavoro (interesse privato). E sotto questo punto di vista, la coppia di impiegati statali che fino ad un decennio fa riusciva a mettere tranquillamente da parte il gruzzolo per la vacanza estiva ed ora pur di non rinunciarvi (l’abitudine è una brutta bestia come sosteneva David Hume) accede ad una “finanziaria”, avverte la “crisi” alla stessa stregua dell’industriale che se prima poteva permettersi di andare tre volte l’anno in vacanza, ora ci va 1 sola volta. Ed essi la avvertono più di una coppia di impiegati del Sud, dove, tralasciando tutta una serie di excamotage clientelari, l'inattività prolungata giovanile e l’esclusione femminile dal mercato del lavoro, sono comunque vissute ed in qualche modo “contenute” nei confini della famiglie di origine e di appartenenza.
La tornata amministrativa che boccia un bigotto paternalismo rassicurante ed ottimistico in metropoli come Torino e Milano (16ª e 17ª nella tabella dei comuni capoluogo a rischio povertà) anziché la Napoli (34ª) del dopo Bassolino e dei rifiuti, così come in cittadine tipo Barletta (in testa alla classifica con il 30% a rischio povertà) o la stessa Fermo (8ª), per non parlare del dilagare nel Nord Italia del populismo di piazza “grillino”, subentrante a quello oramai di palazzo “leghista”, troverebbe in questa ricerca più di un conforto. Ma c'è un altro dato inoppugnabile. Non è un caso che una città a vocazione esclusivamente turistica come Rimini occupi il 3° posto. E non è un caso che città come Catania (31ª) o Trapani (60ª), oramai devote ad un turismo che innalza costi dei servizi e prezzi merceologici a discapito dei residenti, siano i comuni siciliani col più alto indice di rischio povertà. Chi propugna azzeramenti industriali – come nel caso di Gela, ad esempio – per un turismo a tutto spiano, dovrebbe riflettere prima. Il turismo è la vocazione naturale di un'isola, persino banale ribadirlo. Ma non può essere l'unica ambizione. Laddove le aspirazioni industriali, agricole, marittime ed artigiane sono state prima mortificate, per poi essere abbandonate, il turismo – ove è stato possibile praticarlo – si è rivelato un'ancora di salvataggio solo per il suo indotto. Lo sviluppo non può che essere multi-direzionale: tutt'altro che un paradosso.
Autore : Filippo Guzzardi
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