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notizia del 21/01/2008 messa in rete alle 10:59:08
Il primato della coscienza
E’ ossessionante la preoccupazione del Vaticano per il ventilato riconoscimento delle unioni di fatto. Mai si erano visti tanti interventi per ostacolare l’approvazione di una legge preparata da persone dichiaratamente cattoliche. Per la gerarchia l’Italia è una trincea da difendere a tutti i costi. Come argomento per opporsi alla legge, con toni sempre più impegnativi, è che al magistero ecclesiastico, custode della legge naturale, spetta il compito di illuminare le coscienze dei cattolici, perché agiscano in coerenza della propria fede.
E’ ovvio che i credenti debbano essere coerenti con la propria fede. I problemi nascono quando si passa ai casi concreti, come quello della legalizzazione delle unioni di fatto, compresi gli omosessuali. Papa Benedetto nel febbraio del 2007 disse testualmente: “i politici e i legislatori cattolici devono sentirsi particolarmente interpellati dalla loro coscienza, rettamente formata, a presentare e sostenere leggi ispirate ai valori fondati nella natura umana, tra i quali c’è la famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna”. A queste dichiarazioni fa eco la nota della Cei del Marzo 2007: “Sarebbe quindi incoerente quel cristiano che sostenesse la legalizzazione delle unioni di fatto”, specialmente se omosessuali.
Ma cosa deve fare il cattolico che in coscienza non considera le leggi in contrasto con la sua fede?
Deve ubbidire alla Chiesa o alla propria coscienza? La tradizione cristiana ha sempre affermato il primato della coscienza quando il fedele deve subire un ordine ingiusto. Lo stesso S. Pietro di fronte al sommo sacerdote disse con forza: “Bisogna ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini” (Atti 5,29). Lo stesso catechismo del 1992 afferma che “il cittadino è obbligato in coscienza a non seguire le prescrizioni delle autorità civili quando tali precetti sono contrari alle esigenze dell’ordine morale, ai diritti fondamentali delle persone o agli insegnamenti del Vangelo” (n. 2242). Questo principio resta valido anche quando interviene il magistero cattolico. Tommaso d’Aquino, il più grande dei teologi le cui tesi erano norma obbligatoria nelle università cattoliche fino a poco tempo fa, afferma che l’uomo deve seguire la propria coscienza, anche quando essa è in errore, fino al punto di dichiarare che il non credente peccherebbe se, contro la sua coscienza, aderisse alla fede cattolica (Summa teologica 1-11,19,5). Ma poi, contraddicendosi, afferma che il credente che agisce contro il magistero commette peccato di eresia, cosicché gli eretici meritano “non solo di essere separati dalla Chiesa con la scomunica ma anche di essere tolti dal mondo con la morte” (Summa theol. II-II,11,3). E’ un mistero di iniquità come un santo, un insigne teologo possa avere affermato una simile bestemmia. Tutto questo non si può giustificare adducendo la durezza dei tempi. Lungo il corso dei secoli non pochi pensatori, pur sapendo che incorrevano nel pericolo della pena di morte, hanno sfidato l’intransigenza cattolica. Mi ispira più simpatia Giordano Bruno, a parte le sue astruserie, anziché i paludati monsignori che l’hanno condannato, fra i quali Roberto Bellarmino che è stato definito “martello degli eretici” e per questi ignobili meriti è stato dichiarato santo.
E’ incredibile come un santo abbia potuto assistere impassibile ad un processo contro Galilei. Se questi sono meriti… E’ tutto l’entourage vaticano di quel periodo (e non solo di quello) che deve essere condannato senza mezzi termini. Quale Dio mai può aver dato questo diritto alla Chiesa, di sopprimere cioè queste persone che erano pur sempre figli di Dio?
Ne ha fin troppi di peccati sulla coscienza l’intera Chiesa Cattolica. Il mondo si evolve nel riconoscere il primato della coscienza e la gerarchia si intestardisce nel difendere il suo ruolo magistrale. Per troppi secoli la Chiesa è stata una feroce assassina tradendo il mandato del suo Divino Fondatore. Nel 1520 Leone X condannò Lutero per aver osato dire che “bruciare gli eretici va contro la volontà di Dio”. Gregorio XVI nel 1832 descrisse la libertà di coscienza come una follia ed affermò che la libertà religiosa sgorgava “dalla più fetida fonte dell’indifferentismo” e condannando la libertà di religione, di stampa, di riunione e di istruzione come “una lurida cloaca piena di vomito eretico”. Su posizioni identiche sono Pio IX (Beato), Leone XIII e Pio X (Santo!). I musulmani hanno avuto i papi come maestri e sono tuttora oltranzisti nel dichiarare intoccabile la religione islamica. Quando sento questi solenni pronunciamenti della gerarchia penso a Filippo II che voleva rendere navigabile il fiume Guadalquivir, ma i teologi spagnoli dichiararono che il progetto era contro la volontà di Dio. Ancora oggi la gerarchia non riconosce il diritto dei cattolici e dei legislatori di seguire la propria coscienza anche se questa dissente dal magistero. Dopo le speranze suscitate dal Vaticano II una lenta opera di restaurazione riafferma il primato del magistero sulla coscienza. Il teologo Ratzinger afferma che il credente possa seguire la propria coscienza solo se questa è stata ben formata alla luce dei dettami del magistero. Obbedire al papa e obbedire alla coscienza sarebbero la stessa cosa. Ma questo è un gioco di prestigio.
In alcune circostanze il contrasto resta insanabile. Peccato che papa Ratzinger abbia dimenticato quel che lui diceva quando era giovane teologo. Diceva: “La fede si norma su dati oggettivi della Scrittura e del dogma. Sarà possibile e necessaria una critica a pronunciamenti papali nella misura in cui manca ad essi la copertura nella Scrittura e nel Credo, nella fede della Chiesa Universale… Al di sopra del papa, come espressione della pretesa vincolante dell’autorità ecclesiastica, resta comunque la coscienza di ciascuno, che deve essere obbedita prima di ogni altra cosa, se necessario anche contro le richieste dell’autorità ecclesiastica” (Commentario ai documenti del vaticano II).
Checché sse ne dica, aveva ragione il giovane teologo Ratzinger. Ora no!
Autore : Antonio Corsello
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