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notizia del 24/09/2007 messa in rete alle 10:41:26
Il disastro cognitivo della scuola italiana
Mi rendo conto che il tema del “credere nella credenza”, che ho provato a delineare sul “Corriere” della settimana scorsa, non è per nulla simpatico da affrontare. Esso, infatti, mette in discussione non l’atteggiamento dei cosiddetti credenti, ma quello, diffusissimo presso le persone sedicenti laiche e tolleranti, di chi non ritiene di avere alcuna obiezione da fare alle credenze dei credenti, anzi crede che sia un bene che gli altri abbiano le credenze che vogliono. Questo atteggiamento ha delle conseguenze ben precise che non sempre si è disposti a guardare in faccia. Una delle conseguenze è quella di carattere politico che cercavo di mettere in luce nell’articolo precedente. Un’altra, di tipo culturale e cognitivo, è così riassunta da Daniel Dennett: «La credenza che la credenza in Dio sia così importante, che non vada esposta ai rischi di una smentita o di una critica seria, ha condotto i devoti a ‘salvare’ le loro credenze rendendole incomprensibili anche a se stessi. Il risultato è che persino i professanti non sanno assolutamente cosa stanno professando» (Rompere l'incantesimo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2007, p. 263).
Ci sarebbe poi una questione non meno delicata che riguarda in prima persona i docenti, a tutti i livelli. Non ho difficoltà a riconoscere che è molto antipatico porla sul tavolo della pubblica discussione, se non altro perché siamo abituati ad evitare di far luce su cose del genere per una questione di convenienza, ma i tempi dovrebbero essere maturi per cominciare a chiedersi: quali conseguenze formative ha sui bambini e sugli adolescenti l'azione educativa congiunta e duratura dei docenti credenti che fanno proselitismo e dei docenti che credono nella credenza, i quali insieme costituiscono in Italia la stragrande maggioranza?
I meccanismi dell’apprendimento e della trasmissione culturale dagli adulti ai giovani, e più in particolare dai genitori ai figli (visto che è il contesto familiare quello in cui si verifica maggiormente il trasferimento dei semi mentali di una certa credenza), dimostrano che la propensione alla credenza religiosa si può indurre nel bambino e rendere fortissima per imprinting, perché il cervello dei bambini è programmato dall’evoluzione a fidarsi dei genitori o dei membri anziani e autorevoli del clan. La tendenza diffusa a credere nelle favole, dunque, è semplicemente un fatto contingente che deriva dalla circostanza che molte credenze religiose sono istituzionalizzate ed entrano nel flusso di informazioni che gli adulti sono portati a trasmettere alle nuove generazioni. Quello che dal punto di vista biologico è innato sembra essere non tanto il bisogno di avere una fede religiosa qualsiasi, come credono i credenti e quelli che credono nella credenza, ma la tendenza a fidarsi ciecamente di quello che trasmettono gli adulti (tendenza che per altri versi ha un enorme vantaggio evolutivo: si pensi alle “lezioni” dei genitori sulla pericolosità del fuoco o di certi frutti velenosi).
Ecco perché sarebbe ora di chiedersi cosa trasmettere ai bambini, sia a scuola che in famiglia. Il fatto che in Italia (e non solo) si continui a trasmettere generalmente la credenza in un Dio approssimativamente cattolico, anziché in Zeus o nel Big Bang, è solo una questione di scelta culturale non sempre consapevole (da parte degli adulti) e comunque subìta dai bambini, che in tal modo vengono segnati per sempre, o quasi. Non è certamente un caso se i capi religiosi di ogni credo hanno una particolare predilezione pedagogica per i bambini e per chi è ingenuo come un bambino (si pensi al tema evangelico del “rendersi bambini” di fronte alla verità rivelata).
Uno Stato laico dovrebbe dire chiaramente quale tipo di stile cognitivo intenda favorire nei suoi cittadini, e sulla carta lo fa. Nei vari discorsi sulle finalità formative della scuola italiana si parla spesso (e a vanvera) di spirito critico, di capacità logico-deduttive e argomentative e via discorrendo. Ma nella pratica avviene tutt’altro.
Tanto per cominciare, in nessun indirizzo scolastico è previsto lo studio specifico e approfondito della logica e delle strutture argomentative della scienza, a dispetto del fatto che viviamo in un’epoca tecnologizzata. Il tutto è lasciato alla buona volontà (e alla competenza) di qualche volenteroso insegnante di matematica, di scienze e di filosofia. Ma nella stragrande maggioranza dei casi si lascia ben poco nella testa degli studenti. La situazione attuale, infatti, è di questo tipo. Prendiamo una prima Liceo classico. All’ora di greco entra il docente e comincia a spiegare, che so, i versi 22-34 della Teogonia di Esiodo. Indipendentemente dal fatto che sia laico o cattolico, egli dirà giustamente che le affermazioni del poeta circa le dee che gli avrebbero ispirato le sue parole di verità sono poco più che un puro artificio retorico (ed è irrilevante, oggi, che Esiodo ci credesse o meno). La stessa cosa dirà il docente di filosofia che spiega il primo frammento di Parmenide. Il docente di matematica cercherà di educare gli studenti al rigore del ragionamento formale deduttivo. Il docente di scienze cercherà magari di spiegare qualcosa sulle ipotesi scientifiche relative all’origine dell’universo o della vita, e così via. Tutto questo, si presume, dovrebbe consentire agli adolescenti di familiarizzare con idee quali la critica del testo, la contestualizzazione storico-culturale, l’argomentazione critica, la logica della scoperta scientifica, la difficoltà della ricerca, ecc. Ma poi che succede? Entra l’insegnante di religione (cattolica: ma il discorso varrebbe per le altre confessioni) e rovescia tutto, perché ciò che in fondo insegna – per colpa di solito non sua, ma della logica politico-culturale che lo porta ad essere lì – sono cose come: il principio di autorità, i dogmi, i miracoli, la certezza sul fatto che i testi sacri siano parola del Dio di turno, la devozione, l’impossibilità dell’esercizio della critica su certe questioni, ecc. E la cosa più devastante è che i ragazzi, spesso, sono abituati per l’educazione ricevuta e per disposizione biologica innata a dar molto credito a simili atteggiamenti cognitivi poco razionali (perché più facili e rassicuranti) e a considerare una terribile e noiosa fatica l’esercizio rigoroso della razionalità.
Autore : Marco Trainito
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